Dispacci d’OrienteCoda alla vaccinara, in posa, please

Come nei più abusati rituali di scambio culturale tra popoli, anche tra me e i vari giapponesi che si sono succeduti il cibo ha sempre costituito un momento di confronto e di reciproco apprendiment...

Come nei più abusati rituali di scambio culturale tra popoli, anche tra me e i vari giapponesi che si sono succeduti il cibo ha sempre costituito un momento di confronto e di reciproco apprendimento. Per non parlare del fatto che il cibo è di solito un loro grande interesse – dimostrando in questo una curiosità assai maggiore della media dell’homo italicus – e che, in una maniera o nell’altra, capita sempre che ci scappi qualche pezzo giornalistico sulla tradizione gastronomica italiana.
Grazie a uno dei corrispondenti con cui ho lavorato qui ho imparato qualcosa anch’io sulla cucina giapponese. Ogni giorno lui mi portava a pranzo fuori; con una generosità a tratti imbarazzanti e anche piuttosto difficile da gestire in un rapporto gerarchico, mi offriva da mangiare: e non erano tristi e acciaccati panini del bar, ma prelibatezze tipo sushi a prezzi nemmeno troppo modici.
Superata la fase di impaccio iniziale – in conseguenza del quale facevo piroettare convulsamente sul tavolo pezzi di riso e pesce e mi ritrovavo a fine pasto totalmente imbrattata di salsa di soia – ho cominciato a prendere dimestichezza, a capire cosa mi piaceva, ad avere i miei posti preferiti.
Il mio capo era ghiotto di natto. Il natto è una matassa collosa di semi di soia lasciati a fermentare con il sussidio di un bacillo. Pare sia molto sano, ma io l’ho sempre trovato disgustoso sia come consistenza che come sapore.
Sembravamo il bianco e l’indiano che fanno conoscenza al coperto di una tenda, lui che mi spiegava – dettagliatamente, è chiaro – ogni singolo piatto, io che non trattenevo alcuna nozione ma che mangiavo con voracità.
Ben più doloroso per me è stato trovarmi a parti invertite: cioè spiegare il cibo italiano, rispondere a domande surreali sulle diverse varietà regionali di una certa pietanza, improvvisarmi esperta in fatto di vini. Quando si è trattato di farlo per lavoro i risultati sono stati soprattutto comici.Una volta bisognava trovare qualche piatto tipico romano per l’angolo “cibo dal mondo”. In un afflato di romanità, ma anche con intento dissacratorio, proposi di scrivere della coda alla vaccinara. Così tempo qualche giorno mi ritrovai seduta con il giapponese in un ristorante del Ghetto, pronti a esplorare i molti segreti della cucina ebraica romana.
Fu difficilissimo, e non solo per me ma soprattutto per uno dei camerieri cui fu chiesto più e più volte di cambiare posizione al piatto nelle sue mani per immortalare la coda alla vaccinara. Il cameriere era dapprima divertito, poi stupefatto, poi esasperato, mentre il giapponese si alzava di continuo dal suo posto, si inchinava, poi ricominciava il valzer dello scatto perfetto. E in quel caso mi andò quasi bene: con un altro dei miei vari capi, ogni volta che arrivava il momento foto, io dovevo intrattenere il soggetto fotografato, interrogandolo sugli argomenti più disparati per evitare che guardasse in camera e fare in modo che fosse il più naturale possibile: chissà se mi avrebbe fatto parlare pure con la coda alla vaccinara.

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