L’Italia è il paese della minaccia di dimissioni. Ipotizzarle significa dotarsi di un’arma di contrattazione: ormai hanno lo stesso valore di una buona argomentazione dialettica per averla vinta sull’avversario. Ieri Passera per il decreto sviluppo, l’altro ieri Ornaghi per la discarica, ce n’è sempre uno che si affaccia sul precipizio, ma, poi, guarda caso, non si butta giù.
I giapponesi invece si dimettono con gran dispendio di coreografie: parole di rammarico, inchini.
Ma soprattutto, come altri omologhi europei, si dimettono anche per motivi futili. Una breve rassegna di qualche caso recente:
Novembre 2010: Il ministro della giustizia Minoru Yanagida si dimette per una battuta. Eccola: «È facile fare il ministro della giustizia, devo solo ricordarmi le due frasi da usare in Parlamento quando non mi viene una risposta: “Non commento singoli casi” e “Stiamo agendo in conformità con le leggi e le prove”».
Marzo 2011: il ministro degli esteri giapponese Seji Maehara si dimette per aver ricevuto fondi illegali (poco più di 500 Euro) dalla proprietaria, settantenne e coreana, della rosticceria che frequenta da anni.
Luglio 2011: L’appena designato ministro per la ricostruzione Ryu Matsumoto si dimette per alcune frasi poco felici sui sopravvissuti di Fukushima. Frasi incriminate: la prima ha a che vedere con la dichiarazione che il governo «aiuterà tutte le città che hanno delle idee, ma non daremo una mano a chi non ce l’ha». La seconda è la confessione del ministro che, nato nel Sud del paese, non sa localizzare con precisione le aree colpite dallo tsunami e dal terremoto.
Settembre 2011: Il ministro dell’economia giapponese Yoshio Hachiro è costretto alle dimissioni dopo una visita a Fukushima per aver scherzato con un giornalista, toccandolo e dicendogli: «ti passo un po’ di radiazioni».
Passi falsi, per carità, ma vogliamo fare paragoni con l’Italia? Meglio di no.
Infine, last but not least (in realtà cronologicamente viene prima), il mio preferito: il ministro ubriaco.
Il ministro delle Finanze giapponese, Shoichi Nakagawa, a Roma per il G7 nel febbraio 2009 si è presentato in condizioni imbarazzanti a una conferenza stampa. Voce tremolante, occhio spento, movimenti disarticolati.
Io vorrei spezzare una lancia in suo favore. L’unico modo che in Giappone è socialmente riconosciuto e accettato per evadere dai rigidi protocolli è ubriacarsi. In realtà, anche lì, da quel che so, la questione è più complessa. Tra colleghi uomini, infatti, rifiutarsi di partecipare a una bevuta dopo lavoro, specie se invitati dal capo, è una grave mancanza, il segno di uno scarso attaccamento aziendale. Ci sono poi le gerarchie da rispettare e allora il più giovane dovrà stare attento tutto il tempo e ricordarsi di servire i più alti in grado, e via discorrendo. Detto ciò, una volta che l’alcol abbia preso a circolare, le difese si abbassano e le parole si fanno più dirette, i toni si alzano e ci si può ritrovare con la cravatta annodata in testa. Uno dei miei capi amava il vino e mi ha spiegato che i giapponesi non hanno un enzima che serve alla sua corretta metabolizzazione e dunque non lo reggono molto. Quando bevevamo sakè insieme, lui era sempre vincente, ma con il vino era facile vederlo barcollare. Una volta l’ho accompagnato al taxi che camminava a stento, si è dato una sportellata in faccia e mi ha salutato abbracciandomi: insomma una versione inedita di sé.
Certo, si beve di sera, dopo il lavoro. Ma forse il povero ministro aveva ancora i postumi del jet lag e ha invertito la notte con il giorno, magari qualcuno gli ha offerto un bicchiere di vino e ti saluto compostezza nipponica.