A mente freddaDiritto al lavoro e diritto al posto di lavoro

Stiamo cercando di proteggere le persone, non i loro posti. L'attitudine delle persone deve cambiare. Il lavoro non è un diritto, deve essere guadagnato, anche attraverso il sacrificio. Queste, s...

Stiamo cercando di proteggere le persone, non i loro posti. L’attitudine delle persone deve cambiare. Il lavoro non è un diritto, deve essere guadagnato, anche attraverso il sacrificio.

Queste, sostanzialmente, le uniche parole arrivate in Italia dell’intervista che Elsa Fornero ha rilasciato al Wall Steet Journal. Certo, il fatto che il WSJ si faccia leggere solo dagli abbonati è una bella rogna, perché quasi nessuno ha visto con esattezza il contesto in cui queste parole sono state pronunciate. In caso contrario, infatti, ci si sarebbe accorti che brandire l’arma dell’art 4 della Costituzione:

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto,

sarebbe servito a poco. E per varie ragioni.

Fin da quando il concetto di “diritto al lavoro” è stato introdotto nel costituzionalismo europeo (essenzialmente, seppur con forme sfumate, con la Carta francese della Seconda repubblica nel 1848, che faceva proprie alcune delle più avanzate istanze di politica sociale per affrontare i problemi dell’industrializzazione e dei rapporti economici del capitalismo in pieno sviluppo), i suoi contorni sono sempre stati piuttoso vaghi e di difficile identificazione. Man mano che i rapporti socio-economici si sono fatti più complessi e le società europee hanno conosciuto uno sviluppo sociale e culturale senza precedenti, le modalità attraverso cui “favorire e incoraggiare lo sviluppo del lavoro” sono state sempre più difficili da chiarire, e hanno spesso rappresentato un elemento di insanabile discordia tra le parti politiche.

In particolare, man mano che diveniva evidente che un certo tasso di disoccupazione era ineliminabile se non al prezzo di un deperimento della ricchezza collettiva tale da rendere gli interventi diretti come i noti ateliers nationaux assolutamente sconvenienti, le politiche governative di promozione dell’accesso al lavoro hanno dovuto farsi più raffinate, ma spesso anche meno soggette a risultati nel breve periodo, e per questo facilmente contestate come inefficaci o sbagliate. D’altro canto, proprio la natura continuamente opinabile delle politiche sul lavoro ha reso quasi impossibile individuare come costitutivamente “incostituzionale” un certo approccio economico perché non rispondente all’obbligo dello stato di stimolare il più possibile l’occupazione.

Quel che è certo è che mai il diritto al lavoro è stato concepito e formalizzato come diritto al posto di lavoro che si occupa in un certo momento: ed è proprio questo che invece il ministro Fornero contesta con le sue parole. Con l’assunzione a un posto di lavoro, pubblico o privato, non si acquisice il diritto allo stipendio a vita indipendentemente dal proprio effettivo contributo produttivo: idealmente, e anche a livello reale per quanto possibile, la propria permanenza in un posto di lavoro deve essere confermata giorno dopo giorno, attraverso la dimostrazione che si possono svolgere le proprie mansioni meglio di chiunque altro non abbia quel lavoro ma lo voglia avere. Sempre in termini generali, nel momento in cui qualcun altro dimostra di fare meglio di me il mio lavoro, allora il posto che ho io spetta a lui, e se questo non avviene siamo di fronte a una rigidità di sistema su cui intervenire.

Invece in Italia, dapprima per via della cultura giuridica ed economica diffusa originariamente, ma poi soprattutto per una serie di equilibri di forza che hanno condizionato la produzione e l’applicazione delle norme ordinarie nel corso del tempo, lo scarno dettato costituzionale ha trovato concretizzazione in una serie di norme sostanzialmente “fissiste” del rapporto tra lavoratore e posto di lavoro. Esse tutelano chi è stato assunto indipendentemente dai suoi meriti e dalla sua idoneità al ruolo, a scapito di chi non è stato ancora assunto, e quindi dividono i cittadini in diverse classi nel godimento dei diritti, imponendo a chi è entrato nel mercato del lavoro successivamente un peso non richiesto agli altri. Soprattutto, si sono rivelate così costose, in rapporto ai benefici, da poter essere mantenute solo attraverso un regime di prelievi forzosi che in momenti di difficoltà del ciclo economico frenano la crescita e la conseguente nascita di nuovi posti di lavoro per i disoccupati.

Seguendo questo ragionamento, si potrebbe addirittura dire che sono le forme attuali di tutela degli assunti e di sussidio in caso di difficoltà con gli ammortizzatori sociali ad essere in contrasto con il dovere dello stato di promuovere l’ocupazione e l’eguale accesso dei cittadini ad essa. Il ministro bene ha fatto a porre questo problema, e altrettanto bene si farà a spuntare le armi delle minoranze organizzate che, attraverso interpretazioni distorte del testo costituzionale e un indebito ampliamento della sua rigidità alle norme applicative di tipo ordinario, stanno coltivando esclusivamente i loro interessi immediati con effetti potenzialmente rovinosi per il nostro tessuto sociale.

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