Dimenticatevi scintillanti schermi di computer e ambienti minimal. Non c’è luogo più deprimente e cupo di un ufficio giapponese, ancorché in una città italiana.
Desolante carta da parati di color beige stinto e dai disegni datati, fetente moquette sui pavimenti, tutt’intorno un’aria e un olezzo che sembra ristagnare in queste stanze dagli anni Settanta. Dimenticatevi l’ergonomia e dimenticatevi persino la tecnologia: un intricato sistema di cavi si snoda lungo le pareti laterali producendo conturbanti serpenti di fili e smascherando prese quanto meno illegali per la 626.
Lavoro per un quotidiano giapponese, per la sede di corrispondenza in Italia, ormai da qualche anno. Molti gli stereotipi che questa esperienza mi ha obbligato a rimettere in discussione. Tra i primi proprio l’immaginario estetico sul Giappone che si è mostrato non congruo con la realtà. Non è solo l’ufficio a essere agè ma nel tempo lo sono stati – per stile e comportamenti più che per età anagrafica – anche i corrispondenti che si sono succeduti. Così ho capito che, accanto all’immagine cool del Giappone, ne esiste un’altra, forse persino maggioritaria – almeno in certe fasce di età: quella del sararyman (dall’inglese salaryman). Uomini piegati dall’obbedienza cieca ai loro superiori, sfiancati da ritmi di lavoro disumani, intrappolati in logiche anguste e spesso oberati da incarichi ridicoli. Uomini fisicamente incurvati. L’immagine tipo è quella dell’impiegato vestito in giacca e cravatta, addormentato con bava alla bocca (da figurarsi come le classiche gocce che indicano sudore o salivazione nei cartoni animati giapponesi, ovviamente) e tutto il corollario annesso, stravaccato sui sedili della metropolitana di Tokyo per un viaggio di ritorno che sarà, sì, puntuale (niente a che vedere con le odissee dei nostri pendolari), ma non perciò breve.
Questo discorso vale anche per i corrispondenti all’estero – che, pure, rappresentano una categoria particolarmente illuminata.
Amélie Nothomb nel suo libro Stupore e tremori racconta la sua traumatica parabola all’interno di un’azienda giapponese, tra dissapori, rivalità e non detti. La protagonista – che altri non è se non la stessa scrittrice – precipita a tal punto nella scala gerarchica da essere assegnata a un umiliante incarico: quello di presidiare i bagni. Amélie Nothomb adora il Giappone e, tuttavia, non riesce ad adattarsi al contesto lavorativo giapponese. In più è una donna, è gaijin (straniera): troppe barriere da superare tutte insieme. Ho ripensato al suo tragi-comico racconto vedendo le fotografie – non recenti, a dire il vero – dell’artista Miwa Yanagi. La serie si chiama Elevator girl e ritrae delle fanciulle collocate nello spazio sempre in modo simmetrico e sempre omologate nell’abbigliamento. È la rappresentazione della donna incastrata nel suo ruolo subalterno – in quanto donna – nonché nel lavoro – esiste davvero! – di ancella degli ascensori (d’altronde – non è una mia esperienza diretta, ma mi è stata confermata da più fonti – in Giappone esiste anche l’uomo-tendina che si materializza fuori dallo sportello del bancomat qualora aveste problemi con la macchinetta).
Questo lungo cappello introduttivo serviva a dare una qualche rappresentazione del mio capo e di me stessa. Sono messa meglio delle elevator girls, ma a volte mi sento come loro.
In questo ufficio tutto viene preso maledettamente sul serio. Il che talvolta è un bene. Nella maggior parte dei casi si rivela però poco compatibile con la “leggerezza” (a voler essere eufemistici) italiana. Giornalisticamente, è un incubo.
Nei giorni scorsi le cifre sui danni stimati del terremoto in Emilia si rincorrevano. La più gettonata era 5 miliardi di Euro, la cui fonte originaria era di difficile reperibilità (“Il sole 24 ore”?). Molti media non citavano nessuna fonte, davano solo la cifra nuda e cruda. Il capo impazzisce per queste cose e, con ansia e palpitazione, vuole sapere se la cifra è corretta, e se la può usare. Per gli italiani si tratta di “stime”, per di più iniziali, quindi si possono usare con beneficio di immaginazione; per un giapponese, anche se lo chiama assessment (dimenticavo: ulteriore difficoltà è l’uso della lingua di intermediazione: né italiano, né giapponese, ma inglese), quel numero deve essere vero come il dogma della Santissima trinità per un cattolico (appunto, aggiungerebbe un laico).
Ma questo è il meno: se non altro si tratta di notizie di peso.
Che dire di altri episodi? Come quando si deve scrivere di Galileo (perché c’è poi un’ampia casistica di articoli di, ehm, strettissima attualità…) e si va in spedizione a Pisa, si chiede ai passanti se sono orgogliosi di vivere nella città di Galileo (e alcuni a malapena sanno chi sia Galileo), si domanda ai venditori di souvenir se esiste un’oggettistica collegata allo scienziato.
Il momento di più alto giornalismo lo si registra comunque davanti alla casa natale di Galileo. L’edificio è ora occupato da un’agenzia immobiliare. Bisogna allora entrare dentro l’ufficio e intervistare gli impiegati.
“Come vivete il fatto di lavorare nella casa che diede i natali a Galileo?”
Il responsabile dell’agenzia è divertito ma risponde compunto alle domande. Ci dice persino che nell’appartamento si vede ancora la colonna degli scarichi originale, in terracotta. Questo galvanizza il giapponese che pronuncia la domanda da Pulitzer: “Mentre passa le sue giornate qui, si volta spesso a guardare questa parte antica rimasta intatta e a pensare a Galileo? E cosa prova?”.
Ecco perché mi sento anch’io un’Elevator girl.