Centomila perigli per l’occidenteFra le rovine moderne

Archiviate le fredde correnti siberiane, che invadendo il Bel Paese l'avevano trasformato in una provetta penisola scandinava, da uno sfavillante inizio di primavera; ho potuto, in quel di marzo, r...

Archiviate le fredde correnti siberiane, che invadendo il Bel Paese l’avevano trasformato in una provetta penisola scandinava, da uno sfavillante inizio di primavera; ho potuto, in quel di marzo, rimontare in sella, alla volta dei miei piccoli tour nella regione dello sbarco d’Enea.
(una piccola escursione fra le nevi però c’è stata… )

Lo stop forzato m’aveva persuaso a programmare un giretto per i Castelli Romani, così da testare la resistenza delle gambe, in vista delle future scampagnate. Son partito senza particolari crucci per la testa, ipotizzando che, nel caso più sfortunato, qualche anima pia che dimora fra i miei conoscenti non m’avrebbe lesinato un passaggio a casa.

Senza nulla che non fosse la bici, il telefonino e qualche spicciolo, mi incamminavo per i paesi che m’avevano visto crescere.
Scorrevano via Grottaferrata, con la sua abazia millenaria, Marino, famosa più per la sagra del vino che per altro, Castel Gandolfo, con la residenza estiva del papa e la bellissima vista sul lago vulcanico. Mi immettevo poi nell’Appia, la più famosa delle consolari, porta per l’oriente – al quale la cultura romana deve tantissimo- attraversando dunque Albano, su il cui territorio (forse) sorgeva la mitica Alba Longa, Ariccia, divisa fra palazzo Chigi (stessi proprietari, ma diversa ubicazione rispetto a quello più rinomato) e la porchetta, poi Genzano che ogni anno anno ospita l’infiorata.

(foto da internet)

Il fisico rispondeva benissimo allo sforzo e le gambe pedalavano senza impegno, sicché, senza pensarci due volte e con in mente un percorso che da Genzano, dritto fra le campagne, arriva fin al mare in quel di Nettuno, mi son diretto verso i lidi che videro sbarcare gli americani, diretti alla conquista di Roma.

La discesa che mi sono trovato dinnanzi era ripidissima e ricca di curve. I settanta all’ora si toccavano con particolare facilità, come era un’emozione prendere la giusta traiettoria nelle curve inclinando quel tanto la bici. La velocità, è innegabile, affascina l’uomo, lo rapisce e talvolta lo uccide; rievoco sempre nella mia mente quest’ultimo punto quando la velocità veste troppo gli abiti della tentatrice.

Fra campagne collinari coltivate con ogni ben di Dio e qualche resto, ottimamente conservato, di strada romana, il paesaggio, velocemente, degradava sempre più, facendo sì che la strada si trasformasse via via in un lungo e dritto corridoio diretto verso il mare.

M’hanno sempre attratto queste strade che portano verso le spiagge a sud di Roma, anche quando, in macchina, ci giungevo attraverso la nettunense, una delle strade più pericolose d’Italia, seconda solo alla pontina e a qualche altra nei dintorni di Mestre, della nettunense, ahimè, parlerò dopo…

Queste zone hanno l’aspetto stramente degradato, conferito dalle costruzioni, soprattutto industriali e con qualche decennio sulle spalle, abbandonate alla rovina e disseminate lungo queste strade, strette e antiche, che puntano al mare, modernità divenute rovine. Il tutto amalgamato con qualche nuovo gruppo di palazzine miste a qualcun altro un po’ meno nuovo, con qualche casetta abusiva, o gruppo di case abusive, sorte qua e là, con qualche azienda in perfetto stato produttivo, con grandi distese coltivate con quella verdura che ogni giorno sfama la Capitale e qualche campo incolto, dove l’erba, che d’estate s’indora e si profuma degli odori tipici della vegetazione che cresce vicino al mediterraneo, cresce rigogliosa.
Questo tipo d’urbanistica l’ho sempre riscontrato nei pressi del mare, dove il territorio pianeggiante dà la possibilità di costruire senza particolari patemi d’animo e lo stato, o chi per lui, non ha mostrato troppo interesse nella gestione del territorio. Non è bello, certo, però su di me esercita un certo fascino; il fascino di qualcosa di vivo, ma che cresce e muore lasciato a se stesso. Un qualcosa che è quasi regolare, quasi una città, ma con delle disarmonie. Forse paragonabile, se può esser d’aiuto ad esprimer e il concetto, alle canzoni sbilenche di Syd Barrett.

Viaggiando ad una media sostenuta, rallentata solo dal vento di brezza che dal mare andava a rinfrescare la terra – per un ciclista il vento contrario è un odioso e faticoso accidente – m’avvicinavo sempre di più alla meta. In prossimità d’un bivio,ormai a pochi chilometri da Nettuno, incerto sulla direzione da intraprendere ho chiesto numi al navigatore di google; col pessimo vizio di scegliere sempre la strada più trafficata, sicché svoltando a sinistra, (quando avrei dovuto svoltare a destra) dopo qualche decina di minuti, mi son ritrovato sulla nettunense, dove i platani a bordo strada si cingono troppo spesso di lapidi e fiori.
Incazzato nero, ho cominciato a pedalare più che potevo: volevo lasciare quella strada, né bella da percorrere né sicura, alle spalle.
Sfiorando i trentasei/trentasette all’ora, avevo in mente solo di tenere il più possibile la destra della carreggiata. Non vedevo altro.
Alla fine, giunto ad Anzio mi sono sentito sollevato: il poter sedere sugli scogli del porto, a godere in tutta tranquillità dello spettacolo del mare, era una liberazione.

Anzio come città, sebbene si adagi su un tratto di costa abitato fin dai tempi più remoti, non ha nulla antecedente all’ottocento, se non i ruderi della villa appartenuta a Nerone, di interesse più archeologico che artistico.

(foto da internet)

Quindi rifocillato e rinfrancato dalla sosta, abbellita del rumore della risacca, ho deciso di riavviarmi verso casa.
Il cellulare rimasto con pochissima energia residua, unito al fatto che nessun abitante sapeva darmi indicazione certe per risalire a Genzano -senza attraversare la nettunense- m’hanno convito a tentar la strada verso Velletri per il ritorno, che sapevo essere infinitamente più ciclabile della nettunense.

Dopo aver chiesto indicazioni alla ragazza di un bar (che m’ha guardato con la solita espressione allibita di chi neanche immagina che sia possibile fare qualche chilometro in bici, e dicendomi, qualche secondo dopo, con aria beffarda: “ ne dovrai fare di pedalate!”; come se non fosse quello, in finale, il mio scopo! Come se non mi piacesse pedalare godendo del paesaggio!), ho ripreso il cammino.
Ripercorrevo a ritroso i paesaggi che ho descritto prima, molto meno urbanizzati questa volta.
Così su di una strada che scorreva fra due file di pini, con i campi che la circondavano fittamente coltivati, m’avviavo verso Velletri e da lì, percorrendo l’appia, sarei tornato a casa.

Al prossimo racconto!

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