L’improvvida uscita di ieri di Cassano su possibili calciatori gay in nazionale ha riportato sotto i riflettori il tema dei pregiudizi sull’omosessualità diffusi nel mondo dello sport. E questo non solo per le opinioni e i modi del calciatore (a cui non hanno insegnato, alle elementari, che semplicemente le brutte parole per educazione non si dicono in pubblico? E che se si è consapevoli di non avere nelle capacità di ragionamento le doti per cui si viene pagati a peso d’oro è magari il caso di imparare a memoria quattro frasi fatte e di sfangarla così, invece di voler provare a tutti i costi un esercizio in cui non si è ferrati?). Le risatine dei giornalisti, la loro sicurezza di creare il caso pescando il classico scemo del villaggio, i modi in cui le sue parole sono state rilanciate sui giornali e sfruttate da gente in cerca di un nuovo quarto d’ora di celebrità, tutto ci ha portato a pensare che effettivamente potesse non aver torto Antonio Di Natale oltre un mese fa, quando disse, con sensibilità ben diversa da quella del “talento (mai realmente sbocciato) di Bari vecchia”,
Infrangere il tabù dell’omosessualità nel mondo del calcio è un’impresa difficile, direi quasi impossibile. Mi chiedo: come potrebbero reagire i tifosi? Mica possiamo prevedere le reazioni di tutti. Mi dispiace, ma non condivido la scelta di rendere pubblica, almeno nel mondo del calcio, una situazione privata così importante. Il nostro mondo, sotto certi punti di vista, è molto complesso.
Di fronte a calciatori, tifosi, giornalisti del genere, come si fa effettivamente a immaginare un coming out privo di conseguenze? La questione è reale, e vista l’importanza che il calcio riveste nel nostro immaginario e nei nostri media è anche cruciale: finché in un settore così importante della nostra vita pubblica non ci sarà spazio per la libera dichiarazione delle proprie tendenze sessuali, la parità dei diritti e delle opportunità non sarà mai completa.
In questo, purtroppo, lo sport italiano è in buona compagnia, soprattutto negli ambiti che economicamente e mediaticamente “contano”, ovvero nei grandi sport maschili. Se infatti, nell’altra metà del cielo sportivo, un fenomeno assoluto come Martina Navratilova poteva amare chi voleva e avere una delle carriere-monumento nella storia del tennis, forse la più grande di sempre tra uomini e donne, sappiamo tutti che i campioni americani di baseball, football, boxe e basket vedono minata la loro carriera (e la possibilità di accedere alle maggiori sponsorizzazioni) più da qualche diceria sulle loro compagnie preferite a letto che da più o meno fondate accuse di stupro e di omicidio colposo.
Gli studi sull’identità omosessuale e sulla sua rappresentazione nella cultura popolare hanno offerto diverse interessanti interpretazioni sulle ragioni di questa incompatibilità tra cultura sportiva e immagine gay: si va dall’intima correlazione tra virtù sportive di forza, velocità e spirito competitivo fisico e rappresentazioni di genuina mascolinità, fino alla diffusione di stereotipi del tutto infondati sugli omosessuali che sono stati spesso considerati (in quanto “quasi donne”) meno capaci di controllare i loro impulsi erotici, e quindi pericolo costante durante le docce negli spogliatoi. Questi contributi lasciano però il tempo che trovano, considerando che non si può essere ancora influenzati da un simile immaginario nel 2012 senza chiamare in causa un’ampia quota di stupidità diffusa.
Ma quindi? La cosa da fare è effettivamente invitare gli sportivi gay al silenzio, al fine di evitare ad essi le possibili ritorsioni e discriminazioni dirette e indirette che inevitabilmente si verificheranno, per opera di compagni alla Cassano, di giornalisti come quelli che abbiamo visto interloquire con lui e di un pubblico che cerca nel proprio eroe sportivo innanzi tutto un macho? Io non ne sono così sicuro. So bene che il tema è delicato e che non esistono ricette univoche per dare una soluzione a problemi così intricati. Mi limito però a mettere in chiaro due aspetti.
In primo luogo, finché nel mondo dello sport si tacerà “perché compagni e pubblico non sono pronti”, allora pubblico e compagni non saranno mai pronti. Già adesso le norme più elementari di convivenza civile dovrebbero aver insegnato a Cassano & C. che parlar male dei “froci” è quantomeno di cattivo gusto: se non l’hanno capito, è perché evidentemente serve che per capire quanto sia stupido pensare il contrario devono trovarsi faccia a faccia con la realtà che un buon numero di persone che conoscono e con cui hanno condiviso una parte della loro vita sono proprio tra quei “froci” che la loro ignoranza ha costretto a nascondersi. Serve insomma che qualcuno esca dal silenzio, e trovi l’appoggio di tutti quei settori dell’opinione pubblica che sono abbastanza intelligenti da garantirlo.
Inoltre, l’idea che i gay debbano stare zitti per evitare conseguenze spiacevoli mi sembra avvicinarsi troppo, almeno per i miei gusti, all’idea di attribuire agli omosessuali la responsabilità delle violenze fisiche e psicologiche e delle piccole e grandi discriminazioni che ricevono. Ci si muove insomma su un crinale pericoloso: quello per cui si attribuisce alle donne, ai loro comportamenti e al modo in cui si vestono la responsabilità di evitare di essere struprate; quello per cui, nell’Alabama e nel Mississippi degli anni Cinquanta, si impediva agli afro-americani di uscire dai loro quartieri al di fuori delle ore di lavoro, perché un nero “fuori posto” nel momento sbagliato avrebbe potuto essere oggetto di violenze. Ed è un crinale da cui, soprattutto in un paese che con l’dea di omosessualità ha ancora tanti problemi come il nostro, secondo me dovremmo toglierci al più presto, invece di rimanerci.