Nel 1919, al termine della «grande guerra» che aveva devastato l’Europa, Halford J. Mackinder pubblicò la sua opera più importante, Democratic Ideals and Reality. Tra le pagine di quel volume, che certamente non costituisce il suo scritto più famoso, il padre nobile della geopolitica anglosassone invitava tutti i contemporanei a un più adeguato intendimento della situazione politica mondiale. Esprimendo forti perplessità nei confronti dell’idealismo wilsoniano, il grande geografo inglese infatti richiamava a un prudente realismo.
La guerra civile che da più di un anno insanguina la Siria è uno specchio ben molato del grave rischio che – proprio come al tempo di Mackinder – sembrano correre molte delle analisi e delle iniziative politiche sulla situazione attuale del Paese o sugli scenari regionali e internazionali futuri. Il rischio è quello di piegare agli ideali democratici fatti che mostrano tutt’altro, con lo spiacevole e perverso risultato di perdere la capacità non solo di analisi, ma anche di giudizio sulla realtà.
Mentre i sanguinari massacri scuotono e inorridiscono giustamente la comunità internazionale, tra i commentatori tende a prevalere il sentimentalismo o lo sdegno. Così come nelle élite politiche vengono mal celati il disincanto e l’impotenza. C’è la consolidata tendenza a credere in maniera irragionevole che la semplice denuncia, il richiamo al rispetto dei diritti umani o la minaccia di iniziative internazionali, possano condurre a una piena soluzione della crisi. Ma tutto questo corrisponde più che altro a un atavico bisogno di auto-assoluzione (dei Paesi occidentali) o alla cinica consapevolezza di auto-compiacimento (dei Paesi arabi) di fronte a una situazione che si sta avvitando sempre più su se stessa.
Innanzitutto, occorre sottolineare un fatto importante, anche se spesso sottovalutato. L’eventualità che Bashar al-Asad decida di rinunciare al potere è assai difficile, quando non praticamente impossibile. La Siria, infatti, da più di quarant’anni – il regno di Hafiz al-Asad, il padre dell’attuale dittatore, è durato dal 1970 al 2000 – è governata dalla minoranza alawita. Quest’ultima, pur rappresentando soltanto il 20% circa della popolazione, ha il pieno controllo sulle principali istituzioni del Paese. Gli alawiti ricoprono posizioni apicali sia nel governo, sia nelle forze armate. È pertanto impensabile, oltre che molto ingenuo, ritenere che siano disposti a sacrificare a cuor leggero il loro leader per iniziare una transizione di regime graduale. Di fronte alle efferate violenze non solo degli ultimi quattordici mesi, ma anche a quelle del tristemente leggendario massacro di Hama del febbraio 1982 (dove furono ammazzate oltre 20.000 persone), gli alawiti sanno benissimo che proprio la repressione sarà il loro destino una volta abbandonato il potere. E, proprio per tale motivo, continuano a dominare nel sangue il resto della popolazione siriana.
In secondo luogo, anche la ventilata possibilità di un intervento armato internazionale rimane una chimera. Se ne parla tanto, ma nessuno realmente ne desidera l’attuazione. Qualche giorno fa, François Hollande lo ha evocato: il neo-presidente francese si è detto favorevole a un attacco, purché esso avvenga sotto l’egida dell’Onu. Pronte sono state le risposte negative sia della Russia, sia della Cina. Le due grandi potenze, che già qualche mese fa avevano bloccato una risoluzione delle Nazioni Unite, hanno nuovamente lasciato intendere che quest’ipotesi non avrà mai l’avvallo del Consiglio di Sicurezza, proprio perché entrambe ricorreranno al potere di veto. Un pronunciamento in senso contrario è arrivato anche dalla Lega Araba e dagli Stati Uniti. L’amministrazione Obama, infatti, rimane contraria non solo a un intervento militare, ma anche a fornire armi a un’opposizione di cui ancora poco chiare sono forma e composizione.
In terzo luogo, la via diplomatica rivolta ad aumentare le pressioni sul regime di al-Asad e poterlo così isolare non sembra in grado di fermare le violenze. L’America e alcuni Paesi occidentali (Francia, Regno Unito, Germania e Italia) hanno espulso gli ambasciatori siriani. Tali decisioni, pur se dovrebbero rappresentare (e, forse, sono) un giro di vite nei confronti del regime di Damasco, rischiano di apparire soltanto un impotente lavacro delle coscienze occidentali di fronte all’intricato rebus siriano.
Infine, occorre registrare il cinico atteggiamento che le monarchie del Golfo – in particolare, l’Arabia Saudita – hanno tenuto all’interno dei confini della Siria in funzione anti-iraniana. Nell’orizzonte della continua lotta tra l’arco sciita e la mezzaluna sunnita, le monarchie del Golfo hanno finanziato gli insorti, armato le milizie contrarie ad al-Asad, e svolto una capillare funzione di diffusione mediatica della rivolta. In altri termini, per calcoli di mera realpolitik, hanno giocato con la vita della popolazione siriana, senza peraltro considerare – o, forse, pienamente consapevoli – delle ripercussioni in termini di destabilizzazione dell’intera regione mediorientale che la recrudescenza dalla situazione può determinare. Il precario equilibrio politico-sociale del vicino Libano, per esempio, rischia di andare in frantumi, proprio a causa dell’onda di reflusso proveniente dalla guerra civile in Siria.
Il piano di Obama per un allontanamento (volontario) di Bashar al-Asad, così come il tentativo di Kofi Annan, purtroppo sembrano ancora lontani dal rappresentare una valida proposta su cui costruire il presente e il futuro del Paese. Tuttavia, proprio questa sembra essere l’unica strada percorribile.
Nella comunità internazionale, in tanti – pur con forte disincanto – si aspettano che in Siria avvenga un miracolo. Molto probabilmente, invece, ancora lungo è il cammino che condurrà – attraverso pressioni esogene e compromessi endogeni – a una soluzione accettabile del conflitto. È quello stesso cammino che separa gli ideali democratici dalla realtà, soprattutto sulla via di Damasco.