Il rappresentante dei genitori è come l’arbitro di boxe quando divide i due contendenti, alza il braccio e – mentre sta per dare l’avvio al nuovo scambio – prende un cazzotto al fegato da uno e al mento dall’altro. Hai a voglia a dire: oh scusa non l’ho fatto apposta.
Gli incerti del mestiere, si sa. E in effetti, come l’arbitro di boxe, sono in mezzo e dovrei stare più attento, pronto a schivare. Solo che sono un pessimo arbitro: non so vedere i colpi bassi.
Ora, succede sempre così, non importa quale sia la ragione e l’oggetto del contendere: concentrato su cosa si deve fare in nome del popolo genitore (richieste, info, raccolte fondi), chiedo e, una volta ottenuta la maggioranza delle adesioni, vado. Convinto, nuoto nel miele dei sorrisi pre e post scuola fino a quando, per una banale richiesta, non si scatena la bagarre: fazioni, gruppuscoli, capicorrente, dinamitardi. E io che – regolarmente – cado dalle nuvole con in testa il refrain EdikaComics: perché tanto odio?
Sono le mamme a essere agguerritissime. La domanda tipo: ma come fai a non vedere? A non sapere? A che gioco giochi? I padri invece si guardano come per dire: vabbè. Un attimo prima annuivano vigorosamente nell’angolo con la moglie, ma ora non ce la fanno proprio. Hanno pietà.
So che dovrei avere una risposta, penso mentre mi rialzo e mi riannodo il cravattino, lisciandomi la bella camicia bianca. Ma non ce l’ho. Io proprio non lo so perché a uno che ti sta sull’anima devi proprio farglielo sapere, perché bisogna farsi i dispetti a vicenda col sorriso cattivo sulle labbra, come in una guerra di cuscini in cui hai messo i tollini di piombo.
Con la coda dell’occhio tengo d’occhio il sinistro dell’uno. E il gancio dell’altro. Poi – e che posso farci, io – abbasso la mano.
Boxe!