Per molti il Giappone è sinonimo di qualità, di attenzione, di cura al dettaglio, di perfezionismo. L’artigiano che lavora la ceramica raku, il cuoco che sminuzza con pazienza e rigore geometrico, gli oggetti tecnologici che funzionano (non come quelli dei vicini cinesi, stigmatizzati con la loro fama di copioni – anche se fu così anche per il Giappone degli anni Ottanta, solo che, si dice, i giapponesi sapevano copiare bene, i cinesi no). Tutta la struttura sociale sembra convergere verso un unico obiettivo: produrre, produrre e produrre. Silenziosamente, senza conflittualità (almeno apparente). Gli individui sono allenati a una logica da alveare che ha trovato concretizzazione nella forma capitalistica ma che affonda le radici nella cultura confuciana di cui il paese è permeato.
Tutto ciò vale anche per il giornalismo, con effetti perversi agli occhi di un italiano.
Il giornalista in Italia assume spesso – almeno nelle chiacchiere da bar – lo statuto di venduto, di membro della casta, di persona di poche qualità. Gravano sul mestiere pregiudizi di altre epoche: chi ha scelto di fare il giornalista deve essere uno che ha fallito altrove, nell’Università, per esempio, o nel mondo letterario. Il giornalista è un parassita, un cinico. Sarah Bernhardt diceva: “Volete fare il giornalista? E perché non fate piuttosto il porcaro? È un mestiere molto più pulito”, e questo vale ancora oggi.
Ora, non so dire esattamente che ruolo sociale rivesta un giornalista in Giappone – so per certo che, dato che il quotidiano per cui lavoro è una potenza economica, i corrispondenti qui sono sempre corteggiati e idolatrati dai loro connazionali (mentre gli italiani, nella maggior parte dei casi, li guardano con ironia o, nel migliore dei casi, con malcelata compassione) – però devo dire che sciatteria e approssimazione non sono di casa nemmeno nel giornalismo. Tutto molto bello, sì. Peccato che poi diventino dei samurai dell’informazione. Solo che al posto della katana indossano delle spuntatissime abitudini e dei comportamenti standardizzati che non fanno un gran favore alla causa!
Basta con la teoria. Capiamoci.
Sono fissati con le statistiche. Morirebbero per un numero. Si immolerebbero per una percentuale. La prima volta che l’ho capito è stata quando, ero arrivata da non molto, si trattò di fare un pezzo su un pilota di areo 80enne ancora attivo (e già sul tema dell’articolo si potrebbero aprire a ventaglio innumerevoli discussioni). Avevo letto la storia non so dove, un quotidiano o una rivista italiana, dove il vecchietto pomposamente veniva presentato come “il pilota più anziano d’Italia”. Magari chi aveva scritto il pezzo era stato un po’ sbruffone e poco accurato, ma, insomma, ci sono reati ben peggiori. A me però non era concesso di lasciare irrisolto l’enigma: era o non era il pilota più vecchio d’Italia? Così mi ritrovai a chiamare riviste specializzate, scuole di volo, persino l’Aeronautica italiana cercando le statistiche di età dei piloti italiani nel tentativo di soddisfare la richiesta impossibile che il mio capo mi aveva rivolto (nel tempo sono diventata più meschina, sono cioè tornata più italiana, e trovo prima il modo di risolvere questioni incresciose come questa).
Oppure scrivono un pezzo sulla più demenziale delle cose, e vogliono sapere tutto, e dico tutto per intendere tutto. Questo è un episodio più recente. Il capo deve scrivere un articolo su, ehm, un souvenir dall’Italia (anche qui sarebbero necessarie più spiegazioni: in estrema sintesi, pubblicano dalle varie sedi di corrispondenza delle serie, tipo “la moda dal mondo”, “le case degli italiani, dei francesi, dei tedeschi, ecc”, “il cibo nel mondo”. C’è anche, appunto, il souvenir dal mondo: grande pezzo di inchiesta). Dopo lunga riflessione si è scelto di puntare sulla macchinetta della moka. Mi sforzo di pensare che ne possa venir fuori qualcosa di carino, tipo una storia dell’Italia letta dal filtro del caffè, gli trovo pure qualche articolo che racconti qualcosa in questo senso. Lui vuole intervistare un responsabile della Bialetti. Fisso l’incontro e dall’azienda mi chiedono la cortesia di mandargli le domande con un po’ di anticipo. Con raccapriccio invio una lista che contempla domande come: Quali sono le abitudini di consumo degli italiani? In particolare, esistono dati che illustrino tali abitudini (quanti caffè prodotti con la moka vengono consumati al giorno, ecc.)?
Qual è il ruolo del vapore nella produzione di caffè con la moka (questa è davvero importante, ha chiesto anche a me il funzionamento idraulico della moka, io l’ho guardata terrorizzata)? Quali sono i modelli di macchinetta per la moka più diffusi? Quali sono i vostri dati di vendita annuali per il modello più diffuso di macchinetta per la moka?
Ecco, questo è quello che fanno i giornalisti giapponesi. E lavorano come pazzi, spesso perdendo tempo appresso a cose inutili. Saranno sicuramente più precisi e più seri degli italiani – abbiamo da imparare, per alcuni versi – però i loro giornali sono di una noia pazzesca: dati, spiegazioni tecniche, numeri e dettagli.
Molto rigore, nessun senso del racconto.