Nel mirinoIntervista a Stephen Mayes, direttore di VII, una delle migliori agenzie di fotogiornalismo.

Yves St Laurent - 2002 - Photo by Alexandra Boulat/VII   Ho intervistato Stephen Mayes, direttore generale di VII, una delle migliori agenzie di fotoreportage del mondo.   - Parlami brevemente del...

Yves St Laurent – 2002 – Photo by Alexandra Boulat/VII

Ho intervistato Stephen Mayes, direttore generale di VII, una delle migliori agenzie di fotoreportage del mondo.

– Parlami brevemente del tuo background professionale

Ho avuto una carriera intensa: ho cominciato con il fotoreportage dirigendo l’agenzia Network Photographers a Londra. Mi sono poi lanciato nel settore commerciale lavorando come Group Creative Director di Getty Images e poi in quello artistico come direttore creativo di Eyestorm, e ho rappresento artisti come Ed Ruscha, Jeff Koons, Damien Hirst e altri. In seguito ho lavorato per Art and Commerce come direttore dell’Image Archive, rappresentando Steven Meisel, Ellen von Unwerth, Robert Mapplethorpe, Guy Bourdin, David LaChapelle, e altri. Negli ultimi quattro anni sono tornato al fotoreportage come direttore generale di VII, la più grande agenzia di fotoreporter del mondo.

– Com’è nata VII?

VII è stata fondata undici anni fa da un gruppo di sette importanti e ispirati fotoreporter: Alexandra Boulat, Ron Haviv, Gary Knight, Antonin Kratochvil, James Nachtwey, Christopher Morris e John Stanmeyer. Volevano avere maggiore controllo sulle loro attività e il 6 settembre 2011 sono andati a ritirare del contante a uno sportello automatico a Perpignan, in Francia, e hanno messo i soldi sul tavolo con l’intenzione di fondare un’agenzia. Sei giorni dopo il mondo è cambiato con l’attacco all’America da parte di Al Qaeda, quindi VII è nata tra le fiamme dell’11 settembre. Il gruppo da allora documenta senza sosta l’inizio turbolento del nuovo Millennio.

– Qual è la forza di VII, e quale la sua missione?

VII è nota per la forza viscerale delle sue immagini, ma ciò che davvero rende unico il gruppo è il suo impegno inarrestabile nei confronti dei grandi temi del nostro tempo, utilizzando la fotografia e la forza del racconto visivo per informare, ispirare, stimolare il cambiamento.

Iraq – 2003 – Photo by Antonin Kratochvil/VII

– Parlaci del libro “Questions Without Answers”: di cosa parla?

Questions Without Answers raccoglie ventidue anni di lavoro di dieci dei fotografi di VII (il libro era stato pensato prima che l’agenzia si ingrandisse fino a comprendere 23 fotografi). È un libro straordinario per diverse ragioni. Le immagini si riferiscono a un periodo storico che va dalla caduta del muro di Berlino fino alla Primavera Araba, e l’impatto viscerale di così tanti eventi significativi concentrati in 368 pagine è molto forte. Come suggerisce il titolo, il libro presenta anche un punto di vista filosofico e riflette anche il fatto che i fotografi sono consapevoli che da soli non sono in grado di risolvere i problemi del mondo; David Friend di Vanity Fair ha scritto una magnifica introduzione che spiega i valori etici di VII e l’approccio alla professione da parte dei fotografi. Il libro rappresenta anche una pietra miliare che pone l’accento su un momento significativo, un momento in cui la cultura dei media si sta muovendo verso una nuova era digitale: il libro guarda indietro, mentre VII guarda al futuro.

– Com’è cambiata, se è cambiata, la fotografia documentaria?

La fotografia documentaria è in continua evoluzione, e questo è un momento particolarmente esaltante. Possediamo nuovi strumenti mediatici, possiamo rivolgersi a un pubblico nuovo sul web e stiamo imparando nuovi linguaggi visivi che ci permetteranno di espanderci in molte nuove direzioni.

– Credi che i premi stiano modificando il corso della fotografia documentaria? E se sì, in che modo?

La maggior parte dei premi sono una specie di “indicatore economico”, ovvero riflettono ciò che è già accaduto ma non possono prevedere ciò che accadrà.

– Che cosa spinge più di tutto un fotoreporter a fare il suo lavoro?

I fotoreporter che conosco sono spinti dalla passione per il confronto con il mondo. Con le loro fotografie arrivano in ogni angolo del mondo, si confrontano con tematiche importanti, incontrano persone straordinarie, approfondiscono temi di grande rilevanza e sperano di poter influenzare il risultato finale degli eventi mondiali. Il mestiere di fotoreporter ci ricorda continuamente che cosa accade nel mondo e quale sia il nostro posto in esso, e il successo è una continua prova di carattere.

Somalia – 2008 – Photo by Franco Pagetti/VII

– Quale pensi sia oggi il ruolo del fotoreporter?

Di questi tempi i fotoreporter sono raramente i primi ad arrivare con le loro macchine fotografiche, e i fotografi amatoriali, con i loro smartphone e internet si sono impadroniti del ruolo di “testimoni” che un tempo era proprio del fotoreporter. Oggi i fotografi professionisti devono interpretare e non solo registrare: i nostri fotografi devono esaminare le varie situazioni e fornirci una visione più approfondita che possa aiutarci a capire meglio il mondo in cui viviamo.

-Che cosa è cambiato con l’avvento del digitale, degli smartphone e di internet?

La rivoluzione digitale è cominciata vent’anni fa, eppure solo ora iniziamo a capire l’impatto di questo nuovo medium sulla nostra cultura. L’impatto della fotografia digitale e di internet è enorme. Lo paragono all’invenzione della stampa, che ha fatto molto più che incrementare la diffusione dei libri: la stampa ha cambiato il nostro rapporto con l’informazione, portando l’alfabetizzazione di massa e tutto ciò che ne è seguito: il Rinascimento, la scienza moderna e la riforma delle strutture sociali. Siamo all’inizio di un nuovo viaggio, e non possiamo sapere dove ci porterà.

– Come risponderesti a chi obietta che soggetti come la sofferenza, la guerra, la morte, il dolore altrui non possano essere documentati in modo esteticamente “bello”, oltre che autentico?

Il nostro lavoro è comunicare ed è un bene se riusciamo ad avvicinare la gente ad argomenti forti attraverso immagini belle. A volte il fotografo perde di vista questo obiettivo e spesso vediamo belle foto che però nascondono la crudezza della realtà, e non è una cosa positiva. Ma la bellezza in sé non è una cosa negativa – può essere un ottimo strumento per aiutarci a fare il nostro lavoro.

George W Bush – 2004 – Photo by Chris Morris/VII

– Che cosa pensi del fatto di avere uno “stile” riconoscibile e di fare il fotoreporter?

È necessario per un fotoreporter avere un punto di vista e un’opinione, e questo dovrebbe essere visibile nelle sue foto. Google Earth ci fa vedere com’è il mondo, ma è solo una macchina, mentre è responsabilità del fotografo andare oltre e interpretare il mondo. Lo stile individuale di ciascun fotografo ci dice qualcosa in più di quello che osserviamo. Lo stile di un fotografo ci racconta chi è l’autore di quegli scatti e la sua prospettiva particolare. Se tutti i fotografi lavorassero allo stesso modo avremmo una visione limitata del mondo in cui viviamo.

– Cosa pensi di singole immagini iconiche versus le serie fotografiche?

Le foto singole e le serie funzionano in modi diversi e hanno entrambe valore: vivono le une accanto alle altre, e ciascun format comunica in maniera diversa; e oggi abbiamo anche i contenuti multimediali che sono una cosa ancora diversa. La forza di una foto singola, di una serie o di un lavoro multimediale è determinata dal contesto circostante. Una bella foto può sembrare ridicola se usata nella maniera sbagliata, e così una foto tecnicamente non buona può essere invece di grande impatto se usata nel modo giusto. Basti pensare alle foto delle torture ad Abu Ghraib, banali se viste nel contesto dei social network personali, ma che hanno cambiato il mondo una volta pubblicate sul New Yorker.

– Come giudichi una foto?

Non credo esistano foto brutte, ma una foto può sembrarlo se collocata nel posto sbagliato. Penso a una foto sottoesposta, sfocata o in cui magari la testa del soggetto è stata tagliata, magari è una foto di mia madre, è un’immagine per me preziosa: ma non vincerà nessun premio.

– Quali sono i parametri soggettivi e quelli oggettivi?

Credo dovresti chiederlo a Roland Barthes!

– E cosa prevale nel giudizio (l’oggettività o la soggettività)?

Una foto non può essere oggettiva e prescindere dalle intenzioni del fotografo, o dalle intenzioni dell’editor di un giornale, la foto ha significato solo quando viene guardata, e chi la guarda ne crea il significato. Ad esempio, si pensi alle immagini dei linciaggi degli anni 20 negli stati meridionali degli USA, realizzate come documenti celebrativi, e che divertivano tanto chi le guardava a quei tempi, ma che oggi sono prove di un crimine e guardate in quest’ottica.

Congo – 2004 – Photo by Marcus Bleasdale/VII

– Come si comunica a parole se una foto è bella (e perché) o brutta (e perché)?

Un buon critico non mi dice se gli piace una foto oppure no, mi dice PERCHÉ gli piace o meno. Ci vuole un’abilità particolare per parlare di una foto, e non sono in molti ad averla.

– Che cosa deve fare un giovane fotografo per diventare un buon fotoreporter?

Un giovane fotografo deve essere curioso, entusiasta, e soprattutto deve avere delle idee. Non deve semplicemente imitare ciò che hanno fatto gli altri prima di lui. Ci sono nuove, incredibili opportunità da cogliere nell’industria del fotoreportage, e la chiave per avere successo è l’ immaginazione. Tutti noi dobbiamo pensare a nuovi soggetti, a un nuovo pubblico, a nuovi modi di realizzare immagini efficaci di forte impatto.

– Che cosa dovrebbe chiedere un fotografo alla sua agenzia?

È importante capire che nessuna agenzia può fare tutto per un fotografo e che ciascun fotografo è responsabile della propria carriera. Un’agenzia può sostenerlo ma non può dare a un fotografo l’energia e l’impegno che servono a far funzionare le cose da sole. Ogni agenzia fa alcune cose bene e altre meno bene: ad esempio alcune sono molto capaci a fare soldi, altre a creare delle comunità, altre ancora hanno un marchio importante, etc. È necessario capire bene quello di cui si ha bisogno e poi trovare la migliore agenzia che possa darti quello che vuoi. E quando hai trovato l’agenzia giusta sai anche quanto sei disposto a pagare per i servizi che cerchi.

– I tuoi consigli a un giovane fotografo?

Deve essere curioso, creativo, e soprattutto avere molta immaginazione per le sue foto, i suoi soggetti, la sua carriera. Dobbiamo tutti reinventarci, perché l’industria della fotografia si sta spostando verso nuovi territori.

– Quale credi sia la maggiore differenza fra l’uso della fotografia online e quella su carta, e quale credi dovrebbe essere?

Vedo cose molto interessanti online soprattutto quando la gente presenta fotografie arricchite da elementi audio e video e con testi e link alle informazioni inerenti. Internet mi dà anche l’opportunità di rispondere a ciò che vedo: posso ripostare, commentare, partecipare con nuove idee o dare il mio contributo, e posso imparare qualcosa di più sulla storia che c’è dietro un’immagine. È qui che vive la fotografia oggi. La carta stampata è invece un modo fantastico per cercare informazioni su quello da vedere sul web.

– Dove credi stia andando il fotoreportage, e che cosa è importante oggi?

Oggi tutto è importante. Il vecchio mondo della stampa limitava la nostra visione di ciò che è importante perché il numero di informazioni che poteva trovar posto su una pagina era limitato, ma ora viviamo in un ambiente mediatico in espansione dove trovano spazio molte cose importanti e interessanti. Il fotoreportage non ha ancora vissuto la sua età dell’oro, e stiamo per entrare in un nuovo mondo mediatico straordinario ed elettrizzante.

– Come ti tieni aggiornato sul mondo della fotografia?

Leggo, ascolto e penso, e cerco di non stressarmi troppo pensando a tutte le informazioni che mi perdo…

QUESTIONS WITHOUT ANSWERS
The World in Pictures by the Photographers of VII
Published by Phaidon (June 2011)
Hardback
English
368 pp
€69.95
ww.phaidon.com

ENGLISH TEXT:

– Tell me briefly about your professional background

I’ve had a rich career that started in photojournalism managing the amazing Network Photographers agency in London. I jumped into the commercial sector as Group Creative Director of Getty Images and later into the art sector as Creative Director of Eyestorm representing artists including Ed Ruscha, Jeff Koons, Damien Hirst and others. After that I worked with Art And Commerce as Managing Director of the Image Archive representing Steven Meisel, Ellen von Unwerth, Robert Mapplethorpe, Guy Bourdin, David LaChapelle, etc. And now for the last four years I’ve been back in photojournalism as CEO of VII, the world’s leading agency of photojournalists.

– How did VII start?

VII was founded eleven years ago by an inspired group of seven leading photojournalists: Alexandra Boulat, Ron Haviv, Gary Knight, Antonin Kratochvil, James Nachtwey, Christopher Morris and John Stanmeyer. They wanted to be more in control of their careers and on September 6th 2011 the photographers went to a cash dispenser in Perpignan, France and they put money on the table to start an agency. Six days later the world changed with Al Quaeda’s attack on America and VII was born in the flames of 9/11. The group has been documenting the turbulent start of the new Millennium ever since.

– What is the strength of VII and its mission?

VII is recognized for the visceral strength of its photography, but really what distinguishes the group is its relentless commitment to the great issues of our time, using photography and the power of visual story-telling to inform, inspire and to instigate change.

– Tell us about the book Questions Without Answers, what is it about?

Questions Without Answers is a twenty two-year review of work by ten of the VII photographers (the book was devised before the agency expanded to 23). It’s extraordinary for several reasons. The historical arc runs from the fall of the Berlin wall to the Arab Spring and the visceral impact of seeing so many significant world events distilled into 368 pages is powerful. As the title suggests, there is also a philosophical angle and the book reflects the photographers’ understanding that photographs on their own cannot solve the world’s problems; David Friend of Vanity Fair wrote a wonderful introduction that describes VII’s ethos and the photographers’ approach to their work. The book is also a milestone that marks a significant moment as our media culture moves into a new digital age; the book looks back while VII looks forwards.

– How has documentary photography changed, if it has?

Documentary photography is always evolving and this is a particularly exciting moment. We have new multimedia tools, we can reach new audiences online and we’re learning new visual languages that will allow us to expand in many new directions.

– Do you think that competitions are changing the course of documentary photography ? If so, how?

Most competitions are “lagging indicators”, meaning that they reflect what’s happened but they don’t predict what will happen.

– What is the main drive for a photojournalist?

The photojournalists that I know are driven by a passion to engage with the world. Through their photography they get to every part of the world, they engage with important issues, meet amazing people, they dig deep into significant issues and of course they hope to influence the outcomes of world events. A career as a photojournalist is a perpetual reminder of what’s happening in the world and our place in it, and success is a constant test of character.

– What do you think is the role of a photojournalist today?

These days photojournalists are rarely the first people to arrive with cameras, and amateurs with smart phones and internet connections are taking over the role of “witness” that used to be the photojournalist’s job. Now professional photographers need to interpret rather than simply record; we need our photographers to study situations and to bring us deeper insights that help us to understand the world we live in.

– How did digital, smart phones, and internet change it?

The digital revolution started 20 years ago and yet we are only now beginning to understand the impact of this new medium on our culture. The impact of digital photography and the internet is huge. I compare it to the invention of the printing press, which did so much more than increase the distribution of books; the printing press changed our relationship with information giving rise to mass literacy and everything that followed: the Renaissance, modern science and reformed social structures. We are just beginning a new journey and we cannot predict the destination.

– How would you reply to the objection that certain subjects like suffering, wars, death, the pain of others can’t be documented in a way that is also aesthetically pleasing, as well as true?

It’s our job to communicate, and it’s a good thing if we can attract people to look at hard subjects by making beautiful images. Sometimes photographers lose sight of this objective and we have seen many pictures that are beautiful in a way that obscures hard reality, and this is not good. But beauty in itself is not a bad thing – it can be a great tool to help us do our job.

– What could be considered aesthetic today?

The internet allows for many different aesthetics to live side by side. We see European, American and Asian aesthetics every day, plus traditional styles and avant-garde experiments with each click of the mouse. It’s a wonderful expansion of our culture.

– What is your opinion about having a recognizable “style” and being a photojournalist?

It’s necessary for photojournalists to have a point of view and an opinion and this should be visible in their pictures. Google Earth shows us what the world looks like but it’s a machine and it’s the responsibility of the photographer to go further and to interpret the world in a human way. Each photographer’s individual style tells us something new about what we’re looking at. A photographer’s style tells us about who made the pictures and describes the photographer’s unique perspective. If every photographer made the same pictures in the same style we would have a much reduced understanding of our environment.

– What do you think of single iconic images vs. series of photographs?

Singles and series work in different ways and they both have value; they live side by side and each format communicates in different ways; these days we also have multimedia which is different to both of these. The strength of a single image, a series or a multimedia piece is determined by the context around it. It’s possible for a great picture to look ridiculous if it’s used badly and it’s possible for a technically bad image to carry great impact if it’s used wisely. Think of the Abu Ghraib torture pictures, which were banal in their original context in personal social networks but which changed the world when published in the New Yorker.

– How do you judge a picture?

I believe that there is no such thing as a bad picture, but pictures often look bad if they’re put in the wrong places. I think of a photograph that’s under exposed, out of focus and crops the subject’s head but it’s a picture of my mother and it’s a precious image for me; yet it would not win any awards.

– What are the objective parameters and what are the subjective ones?

I think you need to ask Roland Barthes!

– What prevails in the judgment (objective or subjective)?

A photograph cannot be objective and regardless of the photographer’s intention, or the editor’s opinion, the picture only has meaning when it’s viewed and the viewer creates their own meaning. For example, think of the lynching pictures from the 1920’s in southern USA which were made as celebratory documents and they were enjoyed by the viewers at the time, but now they’re condemning evidence and viewed as such by today’s audience.

– How can you communicate with words if a picture is good (and why) or bad (and why)?

A good critic does not tell me if they like a picture or not, they tell me WHY they like it or don’t like it. There is a special skill to talk about pictures in words, and not many people have it.

– What are the steps that a young photographer who wants to be a good photojournalist should take?

A young photographer should be curious, excited and above all they should have ideas. Don’t only copy what others have done before. There are amazing new opportunities facing all of us in the industry of photojournalism and the key to success is imagination. All of us need to be thinking about new subjects, new audiences and new ways to make effective photographs that communicate with impact.

– What a photographer should want from an agency?

It’s important to understand that no agency can do everything for a photographer and every photographer is responsible for making their own careers. An agency can support them but the agency cannot substitute for the photographer’s energy and commitment to make things work for themselves. Each agency does some things well and other things not so well; for example some are good at generating money, some are better at building communities, others have a great brand, etc. It’s necessary to be clear about what you need, then find the best agency that can supply it. And when you’ve found the right agency you need to know how much you’re willing to pay for the service you want.

– Which suggestions can you give to young photographers?

Be curious, be creative and above all have a big imagination for your pictures, your subjects and your career. We all need to invent ourselves again as the photo industry moves into new territories.

– What do you think is the main difference between the online use of photography today and on paper, and what do you think it should be?

I see the most interesting things online where people can show more pictures enriched with audio and video with text and links to relevant material. The internet also offers me a chance to respond to what I see: I can re-post, I can comment, I can donate or contribute ideas, I can learn more about the stories behind the images. This is where pictures live today. Print is a great place to get information about what to see online.

– Where do you think photojournalism is going, what matters now?

What matters now is everything. The old print world used to restrict our vision for what’s important because they could only fit limited information into their pages, but now we live in an expanded media environment where there’s room for many many important and interesting things. Photojournalism has not yet had its golden age and we are on the edge of a brilliant and exciting new media environment.

– How do you keep informed about photography?

I read listen and think, and I try not to stress about all the information that I’m missing…

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