Molti di voi avranno letto l’editoriale di Giovanni Sartori pubblicato ieri sul Corriere, in cui l’autorevole politologo si è lanciato in un feroce “j’accuse” contro gli economisti, colpevoli di aver abbracciato acriticamente la globalizzazione senza considerarne i pro e i contro.
Dal momento che la responsabilità di questa crisi è più diffusa e generalizzata di quanto si voglia ammettere è comprensibile che ci sia la volontà di individuare un capro espiatorio a cui addossare tutte le colpe di questo mondo.
Eppure l’attacco incessante e ideologico che gli economisti subiscono da mesi è profondamente ingiusto e se questa polemica è ben radicata nell’opinione pubblica lo si deve a certi commentatori che pur di non ammettere gli errori commessi nella loro carriera cercano di piegare la realtà a proprio uso e consumo. Sartori quando scrive di economia indulge spesso in simili comportamenti, come testimonia l’articolo di ieri:
Non ieri ma diciannove anni fa (nel 1993) scrivevo che la globalizzazione economica – non quella finanziaria, che è cosa diversa – mi pareva un errore per questa semplice ragione (in condensatissima sintesi): che a parità di tecnologia i Paesi a basso costo di lavoro avrebbero messo in disoccupazione i Paesi benestanti, perché la manifattura si sarebbe dovuta trasferire nei Paesi poveri e così, ripeto, i lavoratori dei Paesi benestanti sarebbero restati senza lavoro.
E ancora:
Ma gli economisti non l’avevano previsto e ora fanno finta di nulla.La loro ricetta per l’Occidente è di diventare sempre più inventivo e all’avanguardia. Ma è un alibi che non tiene. Anche loro, come tutti, sanno che da gran tempo il Giappone e successivamente anche Cina e India sono tecnologicamente bravi quanto noi.
Partiamo dall’inizio: non è vero che gli economisti non hanno previsto la concorrenza dei paesi in via di sviluppo, è anzi vero il contrario. Basta aprire un manuale introduttivo di economia internazionale per rendersi conto che la letteratura teorica ed empirica sugli effetti del commercio internazionale sulla distribuzione dei redditi tra paesi e all’interno dei paesi è assai consistente. Possiamo invece dire, persino gridare, che la classe politica non ha preso i necessari provvedimenti e che quindi ha grandi colpe da espiare.
Ciò che dice Sartori non tiene conto del fatto che la parità di tecnologia non esiste, o almeno non è ciò che intende lui. Anche ammesso che India e Cina siano “tecnologicamente bravi quanto noi”, questo non è rilevante, non è ciò a cui dobbiamo guardare. Il punto centrale della questione è conoscere la struttura dei rapporti tra le dotazioni di lavoro e quelle di capitale nei paesi sviluppati e in quelli in via di sviluppo (ipotizzando ovviamente che lavoro e capitale siano gli unici fattori produttivi esistenti). La Cina avrà anche le stesse conoscenze tecnologiche che abbiamo noi occidentali, però ha una riserva di manodopera sterminata in termini assoluti e anche rispetto alla propria dotazione di capitale.
Se L(c) è la forza-lavoro cinese, L(usa) quella americana, K(c) la dotazione di capitale cinese, K(usa) quella americana, abbiamo che
L(c)/K(c) > L(usa)/K(usa)
In altri termini, la Cina può contare su un’offerta di lavoro praticamente infinita e dunque (almeno fino a pochi anni fa) si è specializzata nella produzione di beni labor-intensive (cioè che incorporano più lavoro che capitale). Noi occidentali avremmo quindi dovuto rifocalizzarci su settori capital-intensive. Per farlo ci voleva una visione di sistema, un progetto a lungo termine: riqualificazione dei lavoratori, riforma complessiva dell’istruzione primaria, secondaria e universitaria, incentivi alla R & D, ambiente fortemente concorrenziale, burocrazia snella ed efficiente e così via.
Alcuni paesi (ad esempio la tanto odiata Germania) l’hanno fatto: l’Italia ha perso l’occasione quando ha deciso di fermarsi 20 anni per partecipare a quella grande allucinazione collettiva che è stata l’esperienza berlusconiana: nessuna riforma dell’istruzione, anzi una serie di tagli lineari che negli anni hanno fortemente indebolito la scuola, un’economia asfissiata dalle rendite di posizione di monopolisti ed oligopolisti, un sistema amministrativo che sembra disegnato appositamente per ostacolare ogni attività economica legale, frammentazione del mercato del lavoro e molto altro.
Ora, va bene lamentarsi della palude in cui siamo finiti, ma evitiamo di dare la colpa agli economisti: è un film già visto e non porta a nulla di buono. La colpa è di un’intera generazione di politici che ha concepito il proprio mestiere non come un servizio per la collettività ma come uno strumento per ottenere e mantenere il potere economico.
Per uscirne e risalire la china la parola d’ordine è: investire-crescere, investire-crescere. Tante grazie; ma i soldi dove sono? Lo Stato è stracarico di debiti e non ha in cassa nemmeno i soldi per pagare i suoi fornitori in tempi ragionevoli.
Mentre nessuno ha pensato a una unione doganale dell’eurozona. Nessun dazio, nessuna dogana, all’interno di eurolandia. Ma, occorrendo, dazi e protezioni per salvare, in Europa, quel che non ci possiamo permettere di perdere.
Arriva ora la parte pratica: come si esce da questa situazione? La risposta è lunga e complessa ma di certo esclude ipotesi protezionistiche: introdurre dazi e protezioni per rendere più care le merci extracomunitarie è un progetto folle, perché darebbe il via ad una guerra doganale capace di affossare l’economia del mondo intero. Se infatti noi mettiamo dei dazi sui prodotti del paese X, quel paese metterà dei dazi sui nostri prodotti. Per non parlare poi delle eventuali ritorsioni che potrebbero essere attuate su beni di prima necessità come il petrolio: quando la benzina costerà 5 euro al litro basterà rispondere ai cittadini che è il risultato delle misure protezionistiche volute da Sartori?
Vale ricordare che il primo Paese industriale è stato l’Inghilterra. E tutti gli altri hanno protetto la creazione del proprio sistema industriale. Allora nessuno disse che questa protezione era una cosa orrenda. Era necessaria e fu benefica.
L’esempio riportato qui sopra è suggestivo ma fuorviante. L’Inghilterra è diventata la prima potenza industriale grazie alla ricchezza di materie prime, alla scarsità di manodopera e allo sfruttamento massiccio delle sue colonie. è vero che sia l’Inghilterra che gli altri paesi “hanno protetto la creazione del proprio sistema industriale”, ma bisogna considerare due cose:
1) l’hanno fatto per aumentare la potenza militare ed economica dello Stato, non per innalzare il livello di vita dei cittadini (che infatti rimase bassissimo ancora per qualche decennio).
2) La rivoluzione industriale emerse in tutta la sua imponenza in Inghilterra soltanto con la scadenza del brevetto che proteggeva la macchina a vapore di Watt e si diffuse nel continente grazie alle macchine progettate dagli ingegneri belgi, spudoratamente copiate dagli originali inglesi.
Sartori dovrebbe comprendere finalmente che la concorrenza non è una bestia da combattere, ma la migliore alleata del progresso.