Due rappresentanti civici: la vera e unica novità del consiglio comunale appena insediato, sarebbe meglio dire confermato.
Chi e cosa hanno scelto gli aquilani? Hanno forse fatto un bilancio delle cose fatte e non fatte, hanno confermato una compagine sulla base di risultati concreti?
Ne abbiamo parlato con Totò Di Giandomenico, Cittadino senza città, come ama definirsi. Da sempre in politica, un passato da ex consigliere comunale, uno degli animatori del movimento delle carriole e per questo ha ricevuto anche un avviso di garanzia con tanto di sequestro di carriola. Esponente dell’Assemblea Cittadina, amato e odiato, ma di sicuro un conoscitore delle dinamiche politiche cittadine.
<Parlando con una persona a me cara, persona colta e mai superficiale, sono stato colpito da una sua affermazione:
“la politica, tutta la politica, oggi è governata dalle sensazioni, nemmeno tanto nobili, a volte dai sentimenti, mai dalla volontà di capire la realtà, con l’obiettivo di cambiare le cose che non vanno, di indicare un’idea di futuro, gli strumenti per costruirlo”.
Come dargli torto. Forse è per questo che è fallito il (mio) tentativo di mettere insieme le tante espressioni civiche con l’unico vero scopo di cambiare, rinnovare la classe dirigente istituzionale della città, del territorio aquilano. E’ fallito per un insieme di ragioni: il combinato disposto dell’attrazione che ancora esercitano i partiti su una consistente parte di pubblica opinione, e la voglia di emergere che – legittimamente – prende tante persone appena si annuncia il clima elettorale, assieme alla scarsa credibilità di chi la proposta ha avanzato e sostenuto con maggiore convinzione. ( in quest’ultimo caso parlo ovviamente del sottoscritto!).
Il germe della divisione è passato; la contrapposizione tra fazioni, che tanti danni ha procurato all’Aquila, più del terremoto, ha dominato anche il dibattito politico, e le persone, anziché scavare fino in fondo nella individuazione dei reali interessi, individuali e collettivi, in base ai quali esprimere il loro consenso, si sono rifugiati nella comoda e accomodante espressione del voto. Sicuro, rassicurante, conservatore!
Due rappresentanti veri, e solo loro, della espressione del variegato mondo civico, della ricchezza culturale e sociale che in questi tre anni si è organizzata ed è cresciuta intorno alla civitas.
Poteva andare meglio?
No, non era il tempo, forse, di cogliere il sottile distinguo tra il consenso (ad un progetto, ad una idea, ad una prospettiva) ed il voto (nella vecchia politica da sempre si afferma: i voti si contano, non si odorano! – pecunia non olet -).
Ed è così che si è consumata la campagna elettorale, tra la buona volontà e la voglia di rinnovamento di pochi, e la più rassicurante scelta della conservazione degli altri.
Il linguaggio vecchio e desueto della politica dei giorni nostri, quella delle promesse mai mantenute, quella dei grandi annunci mediatici e dei vuoti e inconcludenti discorsi ispirati al politichese si è esibita alla grande anche questa volta, e si è visto nelle conferme, con plebiscitari accumuli di preferenze; (chissà perché alcuni vengono additati al ludibrio pubblico perché portatori di oltre 600 preferenze, mentre per altri, andati ben oltre quella cifra, appare tutto normale, si tratta di pubblica stima!).
Mutuando un recente e interessante articolo di Battista su corsera, viene da ricordare come “Alberto Ronchey, per descrivere la logica spartitoria dei partiti dominante nella Rai, mutuò genialmente, già alla fine degli anni Sessanta, un termine in uso nelle transazioni immobiliari: «lottizzazione». Adesso, per apparire più moderni e disinvolti, la chiamano «governance». Ma mentre «lottizzazione» rende perfettamente l’idea di una suddivisione attuata secondo regole circostanziate, «governance» è fumo negli occhi per occultare la morsa dei partiti che stringe, asfissiandola, la cosa pubblica”.
Nel profondo, viene da considerare che costa fatica avventurarsi verso frontiere sconosciute, in grado di superare le tradizionali visioni e contrapposizioni tra destra e sinistra che hanno caratterizzato la vita amministrativa nella nostra città, soprattutto negli ultimi tre anni e individuare nuovi orizzonti, nuovi valori e ideali, e accogliere e valorizzare l’impegno vero, serio, persino un po’ ingenuo che caratterizza la voglia di partecipazione che viene dal basso, dall’intimo della società civile.
Si è dato ascolto a chi proclamava la necessità di un cambiamento nella governance, senza scavare fino in fondo sul vero significato di questa parola e dei concetti in essa contenuti, che sono poi quelli espressi da Battista nell’articolo citato, che nel nostro caso si traduce in chi fa gli appalti!
Abbiamo brillantemente sfumato l’occasione di cercare e trovare motivo di unione delle varie esperienze in campo, assieme a programmi concreti e scelta di persone credibili, che sarebbero stati appetibili anche elettoralmente, poiché si sarebbe individuato in questo movimento spontaneo e popolare una nuova e credibile leadership della città e del suo territorio
Dopo il disastro della città e dei centri limitrofi, era forse il tempo di idee nuove e credibili. Queste, a loro volta, avrebbero chiamato ad impersonarle donne e uomini nuovi. Porre il tema del ricambio della classe dirigente avrebbe risposto (ancor oggi è così!) agli interessi dell’Aquila!
Sarebbe stato necessario un grande bagno di umiltà, un po’ meno autoreferenzialità!
Le premesse erano tutte nella scelta di un nuovo e diverso stile di fare politica anche nell’Amministrazione della città, dove il linguaggio poteva essere quello dei fatti e della verità, l’esatto contrario delle fumose, inconcludenti e verbose chiacchiere che con quotidiana generosità sono state distribuite agli aquilani al posto di concreti e realistici progetti di rinascita; in aggiunta, un atteggiamento rispettoso delle opinioni altrui e la nuova scelta morale ispirata al rifiuto di proclami di superiorità e sincero disprezzo dell’avversario, soprattutto se non appartenente al ceto dei mestieranti della politica (..èsso quissu!…).
Il rispetto dei fatti, delle cose, delle persone, delle idee altrui, che presuppone meno attaccamento ai propri stereotipi, ai luoghi comuni per decenni coltivati, agli antichi convincimenti mai riscontrati nella realtà.
Non ci sono più i partiti di una volta! E forse è un bene; ma quello che ha sostituito quel sistema è oggi la setta, che vive del capo (e del numero dei suoi voti), che osanna il capo, che irradia nel popolo il suo splendore.
Mi vado sempre più convincendo che la metastasi si allarga a vista d’occhio. E divora a destra e a sinistra un corpo ormai stanco e sfinito, rassegnato, incapace di reagire, che ha perso la capacità (volontà?) di indignarsi, gli anticorpi necessari alla reazione.
Scrivevo in altri tempi, in una riflessione su Norberto Bobbio: “il sistema politico regredisce a una barbarie premoderna, cancellando progressivamente secoli di civiltà liberale che aveva elaborato, sulla scorta del pensiero di Montesquieu e di Tocqueville, controlli e garanzie per impedire abusi di potere”.
Oggi viviamo in una temperie culturale assai poco laica, funestata dai fondamentalisti capaci di ragionare solo con le viscere e con slogan orecchiati.
La cronaca di ogni giorno ci mostra come si confondano e si pasticcino politica e morale, diritto e sentimentalismo, in un’ allegra sgrammaticatura linguistica, concettuale ed etica.
Ho soluzioni? Ci sono ricette, certezze alle quali riferirsi?
Invidio molto chi ne ha.
Non ne vedo molte! Ma non vorrei indulgere alla rassegnazione.
Resta pur sempre il residuo di dignità che ancora può consentirci di indignarci di fronte alla ingiustizia e al sopruso, di batterci per il rispetto delle regole, quando siano comuni e condivise, di cercare luoghi di confronto e di incontro con gli spiriti liberi che ancora abitano questa terra e, ne sono certo, nella nostra sventurata comunità>.