A mente freddaOra è ufficiale: l’università è in disarmo

Dopo una settimana circa di "libera uscita" dai miei temi abituali (libera uscita consistita sostanzialmente nel prendermi a sputi con qualche redattore: ma del resto io sono normalista dentro, e c...

Dopo una settimana circa di “libera uscita” dai miei temi abituali (libera uscita consistita sostanzialmente nel prendermi a sputi con qualche redattore: ma del resto io sono normalista dentro, e come insegna Carlo Ginzburg noi non possiamo vivere senza polemiche sterili e oziose) torno a parlare di università: purtroppo, difficilmente questo ritorno “sul pezzo” sarebbe potuto avvenire in circostanze peggiori, né mi consola il fatto di poter dire che, ancora una volta, avevo ragione.

Tra dicembre 2010 e gennaio 2011, in pratica subito dopo l’approvazione definitiva della riforma universitaria del precedente governo, avevo preparato una sintetica analisi dei provvedimenti che poi è apparsa su Kronstadt, rivista a circolazione essenzialmente studentesca e universitaria redatta da dottorandi e giovani studiosi di area pavese. In un momento in cui gran parte dell’attenzione di sostenitori e detrattori della “riforma Gelmini” si concentrava soprattutto sulle nuove forme di governance accademica, riformulate e descritte con dovizia di dettagli nel testo normativo, io avevo deciso di guardare a due temi secondo me molto più sostanziali, perché importanti avrebbero potuto essere le loro conseguenze sia per ciò che le nuove leggi stabilivano, sia per ciò che non stabilivano con chiarezza, demandando ai decreti attuativi gran parte delle responsabilità operative. Ecco un estratto del mio articolo di allora su questi punti:

Reclutamento e carriere. Il futuro dell’università italiana si gioca sul modo in cui si riuscirà a dare un ruolo stabile ai precari, da cui oggi dipende più del 50% della produzione scientifica e dell’impegno didattico. Ed è qui che la proposta governativa presenta le criticità maggiori.
Apparentemente, l’innovazione più rilevante è l’introduzione del tenure track, ovvero della richiesta di requisiti minimi per la conferma dei docenti di ruolo dopo i primi anni di assunzione. In realtà la norma che regola attualmente i ruoli universitari (DPR n. 382/1980) prevede già la necessità di sottoporre a conferma i ricercatori dopo tre anni di attività. Il nuovo testo interviene soprattutto per vincolare la chiamata di nuovi docenti alle «disponibilità di bilancio» degli atenei, senza precisare se queste disponibilità debbano prevedere o meno, fin dall’inizio, la presenza dei fondi necessari a pagare il contratto a tempo indeterminato. Allo stato attuale, insomma, uno studioso potrebbe ottenere questo contratto, adempiere agli obblighi per la conferma (per ora ridotti al conseguimento di una idoneità nazionale attribuita secondo criteri non competitivi) e poi trovarsi senza lavoro per mancanza di fondi e senza la possibilità di ripetere il contratto tenure track in un’altra sede universitaria italiana.
L’incertezza sulle modalità di ammissione dei ruoli si affianca a un’altra tendenza: mentre la situazione sembra richiedere il contrario, la nuova legge aumenta le differenze di trattamento tra strutturati e non strutturati. Questi ultimi non hanno di fronte un percorso certo verso l’assunzione, e con la limitazione degli anni possibili di precariato a 10-12 rischiano di passare una fetta della loro vita a fare ricerca ed insegnare per poi essere sostituiti, a causa della decorrenza dei termini dei contratti, da neo-dottori di ricerca destinati nella maggior parte dei casi a vivere la stessa trafila. Per i primi non è previsto alcun controllo di qualità che possa mettere in discussione il posto di lavoro, e ci saranno (forse) alcune migliaia di promozioni a professore associato che escluderanno potenziali nuovi assunti. Il dettato legislativo, insomma, mette in discussione il sistema di reclutamento precedente, ma ne accetta acriticamente gli esiti, e continua a ribadire le garanzie occupazionali di chi è già all’interno del sistema rivalendosi su chi non è stato ancora assunto in via definitiva.

Riforma e tagli. Si è spesso criticato il fatto che la protesta studentesca alla riforma fosse in realtà rivolta soprattutto ai pesanti tagli finanziari alla formazione universitaria operati dal Governo negli ultimi anni. L’appunto è concettualmente corretto, eppure alcuni elementi lasciano sospettare che paradossalmente la riforma (un ordinamento destinato a durare nel tempo) sia concepita essenzialmente come uno strumento per agevolare i risparmi di spesa (provvedimenti transeunti). In particolare la nuova legge elimina la possibilità di fare concorsi secondo le vecchie norme, ma vincola le assunzioni nuove ai decreti attuativi che, con i tempi parlamentari italiani, possono richiedere anni. Si arriverebbe insomma a un blocco delle assunzioni, simile a quello avvenuto nell’insegnamento secondario con la chiusura delle scuole di specializzazione, l’ammissione alle quali era unica via per conseguire l’abilitazione, con la prospettiva di non sostituire i pensionamenti fino a quando il numero dei docenti universitari non si sarà ridotto fino a corrispondere alle risorse che l’Esecutivo è disposto a spendere per gli atenei. I risultati di questo approccio sulla qualità di un sistema universitario che dovrebbe contribuire allo sviluppo sociale con una diffusione sempre più ampia dell’alta formazione sono facilmente intuibili.

Ora, le conseguenze che paventavo iniziano ad essere concrete e misurabili. Pochi giorni fa è stata pubblicata una analisi effettuata dall’Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani (ADI) sulla situazione occupazionale del personale accademico italiano e sulle previsioni degli effetti del nuovo reclutamento. Una buona presentazione è disponibile sul sito di informazione universitaria e scientifica ROARS, che da tempo si occupa con autorevolezza della situazione in cui versano i nostri studi superiori.

In estrema sintesi, cosa succede? Posso individuare soprattutto due elementi:

  • Nel presente, si è già verificata una robusta riduzione di oltre il 50% dei contratti di ricerca precari, che però non sono stati sostituiti (se non in minima parte) da assunzioni in ruolo. Detto in parole povere, ventimila “studiosi con anni di esperienza alle spalle” sono stati espulsi da un sistema accademico che, già prima, impegnava un numero di professionisti corrispondente al minimo indispensabile per una organizzazione universitaria degna di un paese industrializzato. Solo una parte è, con tutta probabilità, recuperata con contratti di insegnamento che impegnano il docente precario sostanzialmente come un ordinario (con tanto di supervisione di tesi) per poche migliaia di euro l’anno, e non garantiscono fondi di ricerca.
  • Nel futuro, gli scenari prevedibili attraverso pensionamenti e meccanismi di sblocco delle risorse lasciano pensare che una percentuale tra il 65 e l’85% di chi oggi ha un contratto precario non troverà una stabilizzazione in un tempo utile per evitare di arrivare al limite del percorso con contratti a termine fissato per legge (ché, lo ricordo, per evitare che i precari abbondino si è deciso di sopprimerli per decreto).

Questo cosa significa? Da un lato, come sottolineano gli autori del pezzo di ROARS,

è chiaro che il processo di ridimensionamento delle università ha avuto e avrà come effetto essenzialmente una espulsione di massa di giovani precari della ricerca. Questo fenomeno a nostro avviso è un problema sociale e politico che il governo deve affrontare in maniera aperta e trasparente. Se in un’azienda, pubblica o privata, una frazione consistente del personale perde il lavoro, il governo interviene per scongiurare una “sofferenza sociale”, anche se molto spesso in maniera non efficace. Nell’università, però, stiamo assistendo al fenomeno contrario: è proprio il governo a causare il processo d’espulsione, che si profila come una vera e propria “emergenza” sociale e che in più disperde il patrimonio di professionalità che giace nelle figure a più alta formazione che abbiamo nel nostro paese.

Il problema però non è solo per gli individui coinvolti direttamente: abbiamo una università che, per venire incontro agli interessi (pardon, “diritti”) di chi è già stato assunto e alle necessità di spesa sancite da un governo che taglia il necessario per finanziare lo spreco, si libera del personale che attualmente garantisce gran parte dei risultati didattici e scientifici, eventualmente ricorredo laddove assolutamente necessario a forza-lavoro intellettuale a costo nullo e a impegno ridotto o ridottissimo, spesso “mascherata come docenti a contratto, cultori della materia nel tempo libero e purtroppo lavoratori in nero”. Un sistema del genere sta semplicemente chiudendo i battenti, e nessuno ce lo dice.

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