Come tutti saprete ieri (per me ancora oggi) è stato reso noto da L’Espresso un documento di lavoro circolante nelle alte sfere PDL in cui in sostanza si cercherebbe di elaborare uno scenario alternativo al partito berlusconiano, che garantisca la sopravvivenza politica di Berlusconi nonstante, ed anzi attraverso, lo smantellamento del Popolo delle libertà e la fine politica di numerosi maggiorenti che si sono dimostrati scarsamente fedeli e riconoscenti al leader.
In generale, da una lettura anche rapida del piano d’azione, mi sembra che la proposta si possa contestualizzare abbastanza facilmente nella produzione che ha contraddistinto la “cucina” dell’entourage berlusconiano nel breve quanto nel lungo periodo. Ci sono elementi che a Berlusconi sono sempre molto piaciuti perché per lui sinonimo di “novità” anche quando vengono ciclicamente riproposti nella stessa forma: il cambio di nome e di simbolo del partito, pur con un riferimento indiretto all’esperienza di Forza Italia, considerata simbolicamente come la fase ascendente della parabola berlusconiana; l’idea di presentare non un programma ma disegni di legge già pronti, messa in pratica già nel 2001 senza peraltro rendere in alcun modo più fluida la produttività legislativa delle istituzioni; l’atteggiamento minaccioso (e solo apparentemente sulla difensiva, come si è visto nelle varie tornate di destrutturazione della nostra procedura penale) verso il sistema giudiziario; l’idea di stabilire e gestire le carriere altrui in modo del tutto personalistico e autonomo, anche decretandone la morte politica a tavolino. Ma non mancano elementi entrati più di recente nell’armamentario berlusconiano: la necessità sempre presente di garantire al partito un formato leggero, che sostanzialmente non ponesse gerarchie di diritto tra il “capo” e il “popolo”, ma solo gerarchie di fatto sempre riconsiderabili perché mai riconosciute, si traduce nella disarticolazione delle liste, secondo una ripresa di quello che (erroneamente, stando ai dati disponibili) si considera il carattere vincente del grillismo; le proposte di maggiore rottura e di minore portata razionale, sempre secondo quello che si ritiene sia il modello vincente del momento, si fanno senza problemi e finanche con un’enfasi che prima sarebbe stata soggetta a maggiore pudore; si mette al centro del discorso comunicativo “la rete” tradendo un’inesperienza evidente dei suoi meccanismi.
Tutti questi elementi, infine, sono messi insieme in modo sconnesso, quasi in un circuito incrementale. Si dirà che anche questa una caratteristica piuttosto tipica delle uscite berlusconiane degli ultimi tempi, di fronte al senso di impotenza e di confusione che regna sovrano dopo gli ultimi risultati e il senso di ineluttabilità della fine che si avvicina. In realtà è un aspetto ravvisabile in tempi relativamente meno recenti, perché collegato in modo ormai piuttosto evidente al declino fisico e mentale di Berlusconi:
Io ho fatto del mio meglio, tutto ciò che ho creduto possibile. Ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta bene. È stato tutto inutile,
diceva qualche anno fa la persona che a Berlusconi era più vicina, quando ormai era chiaro che, semplicemente, nella crisi italiana aveva una componente fondamentale il fatto che Berlusconi non ci stesse più con la testa, ma fosse circondato da persone che gli dovevano troppo, e la cui posizione senza di lui era troppo fragile, per essere defenestrato. Era in fondo questo elemento di irrazionalità costante e dominante dell’autoritarismo berlusconiano che, meno esplicitamente, già notava Giovanni Sartori nel suo Il sultanato, tratteggiando un sistema di governo in cui produrre sondaggi in base ai quali Berlusconi era il leader più amato al mondo acquisiva un’importanza più immediata del diretto controllo dei centri strategici del potere politico ed economico e del soffocamento dell’opposizione. Per tutte queste ragioni, il documento può credibilmente provenire dalla “cucina” berlusconiana, e porta l’impronta dell’ex premier dei giorni peggiori e dei suoi collaboratori più stretti, ovvero quelli meno capaci di affrancarsi dalla sua influenza anche di fronte all’evidente deperimento delle sue capacità intellettuali.
E in fondo, anche il documento per il rilancio berlusconiano è connotato da una buona dose di follia, che va oltre la profonda e arcaica convinzione (che caratterizzava Berlusconi anche nei tempi d’oro) che gli elettori fossero una massa di manovra inerte, pronta a rispondere a riflessi condizionati dettati da simboli, sigle e parole d’ordine. La follia più grossa qui è il coinvolgimento di Matteo Renzi, uno degli esponenti di maggior spessore e visibilità del partito che tradizionalmente gli si è opposto, in questo piano. Si tratta di una follia innanzi tutto perché sarebbe per tutti gli attori coinvolti un suicidio: Renzi perderebbe ogni credibilità, senza che il fronte di centro-destra possa guadagnare un voto che sia uno da una manovra così incomprensibile. Si tratta di una follia perché, come ho detto all’inizio, questo piano prevede un preciso progetto programmatico incentrato sulla sopravvivenza e sul contrattacco di Berlusconi, e non c’è ragione per cui nessuno (Renzi o chiunque altro) possa accettare di fare da uomo di paglia per un programma che non è in nessun punto il proprio, che è già stabilito e che gli si impone di accettare sottobanco addirittura presentandolo come farina del proprio sacco.
Nel documento originale, comunque, il coinvolgimento di Renzi sembra essere una delle tante, e come ho detto sconnesse e disarticolate, sparate che si sono raccolte una in fila all’altra. Vale poco più del finanziamento alla lista di Rizzo, o della proposta delle liste “Forza lavoratori”, “Forza donne”, “Forza studenti”, che a me ricorda un po’ il suggerimento berlusconiano di mettere “Ferrari” nei nomi di tutti i modelli FIAT per vendere di più.
Ma si sa, la storia testuale di questo genere di documenti è spesso imprevedibile e affascinante. E così, nell’articolo con cui L’Espresso ha presentato la scoperta, articolo attraverso il quale verosimilmente i lettori avranno filtrato la loro conoscenza e gran parte delle loro opinioni sulla notizia, Renzi passa nel titolo, acquisendo il centro della scena. Il sempre lucido Carlandrea Poli di Termometro Politico ha secondo me visto giusto nella sua nota di poco fa: qui la redazione del settimanale ha consapevolmente voluto tirare una bordata d’artiglieria al Renzi candidato alle primarie, sancendo in qualche modo il “battesimo del fuoco” del giovane sindaco in un’alta politica che ha le sue nobiltà ma soprattutto le sue asprezze, e dove questi attacchi sono pane quotidiano. La bordata è stata potente, conclude Poli, perché Renzi è tradizionalmente accreditato di maggior successo all’esterno del PD che al suo interno, ed è proprio ora intento a costruirsi un sistema di supporti interni per rovesciare la tendenza (come è stato fatto notare anche da questo giornale).
A tutto ciò io aggiungo solo due osservazioni che possono rendere ancora più chiara la portata di quanto accaduto. In primo luogo, oltre che di intenzionalità nell’identificazione del bersaglio la presentazione dei fatti mi sembra nutrita di un pizzico di malafede, perché si è voluto appositamente tirar dentro per i capelli Renzi, nonostante la presenza di altri temi e proposte quantomeno curiosi, e nonostante sia facile chiarire l’assurdità di un passo del genere da parte di un esponente del Partito democratico. Inoltre, e forse è la cosa più importante da sottolineare, il piano è stato realizzato a regola d’arte soprattutto per la sua potenziale viralità. Sappiamo bene che Internet e i social network sono pieni di “condivisori” che aspettano come il pane una notizia o un editoriale che collimi con le idee che essi hanno da tempo, e quando lo trovano smettono di porsi domande (anche semplicissime, del tipo: “ma converrà davvero a qualcuno fare una cosa tanto stupida?”) limitandosi a dare alimento a quello che “avevano sempre sospettato”. In fondo è questa la potenza di un mezzo così interattivo, ed è questa la migliore lezione di Beppe Grillo. Mettere (in modo decisamente forzato) Renzi in molto eventuale combutta con Berlusconi, per una parte quantitativamente assai preoccupante di (e)lettori, è stata appunto la conferma che “Renzi è di destra”, che è intimamente un traditore, ecc.: è stata la scintilla che si aspettava per pronunciare o digitare il solito “l’avevo detto io che era così”. Ed è stata una scintilla scoccata su un mucchio di paglia da tempo disponibile. La visibilità concessa alle (spesso generiche e un po’ estorte) dichiarazioni di simpatia a Renzi espresse da figure collegate piuttosto indirettamente a Berlusconi, e comunque prive in ogni caso di qualunque autorevolezza politica e culturale, da Costacurta ad Apicella, certamente non può essere interpretata in modo univoco come un “lavoro ai fianchi” di lungo periodo teso a far autoavverare ripetutamente la profezia del Renzi “di destra”, se non altro perché il lavoro di comunicazione efficace non è mai così lineare, e si compone di una complessa interazione con materiale preesistente e feedback dell’opinione pubblica. Ma già solo il fatto che si sia prestata tanta cura nelle modalità e nella scelta dei contenuti per avere effetti resta una testimonianza interessante dello spiegamento di forze e di attenzione piuttosto imponente per fare da muro contro un aspirante leader che finora non sembra avere seguito sufficiente per minacciare seriamente l'”ordine costituito” all’interno del PD.