Gli affari di questi tempi non vanno bene a Damasco. Turisti? Pochi. Vendite? Non parliamone. Dall’inizio della guerra i mercanti hanno smesso di guadagnare. Visto che non sono gente da cortei e cartelloni colorati non sapevano proprio come protestare. E allora hanno incrociato le braccia. Idrab, “sciopero generale”. Chi si fosse avventurato nella maggior parte dei mercati della capitale alle 9 di mattina di lunedì 28 maggio, avrebbe visto più lucchetti chiusi che altro. Anche i mercanti del suq al Hamediyya, il mercato coperto di fronte alla Grande Moschea, hanno aderito all’agitazione. La luce del sole che filtra dai fori dei proiettili della volta causati dalle mitragliate degli aerei francesi nel 1926 illumina solo chiavistelli e serrande abbassate. Amici che hanno vissuto con me a Damasco dicono che si tratta di un gesto per protestare contro il massacro di Hula (49 bambini morti ammazzati insieme ad altri 59 civili). Altri mi dicono che è un segnale per dire al governo – che storicamente hanno sempre sostenuto – di concentrarsi sull’economia del paese. Perché se non si fa qualcosa per l’economia, anche i ricchi ba’iuun damasceni gli si rivolteranno contro. Difficile da qui verificare le notizie, anche se si conoscono i ragazzi attivi nei negozi della capitale. Sta di fatto che le serrande erano davvero chiuse o lasciate a metà. La prima volta a Damasco dopo 14 mesi di proteste.
Se il minimo disordine fa scattare l’intervento immediato delle forze dell’ordine, i negozi del centro chiusi mandano fuori di testa la polizia locale. Che succede?, chiedono. Semplice, scioperiamo. Cosa strana nel mondo arabo. Ancora di più in Siria dove i soldi dei commerci finiscono spesso nelle casse del governo. Chi è tornato al mercato più tardi ha trovato la polizia che rimuoveva i lucchetti, negozio dopo negozio. E a chi si opponeva botte e manganellate. Liti che nei mercati di Damasco capita di vedere anche in tempo di pace. Ma questa volta l’aria che si respira è diversa.