Tre Bond girl che vanno su e giù per una passerella, un giovane in camice che le guarda tra il sornione e lo stupito, rossetti gloss e sguardi ammiccanti che impongono un ritmo identico a quello delle pubblicità di cosmetici. E infatti pare che il video sia stato realizzato dalla stessa società di marketing di una importante azienda che fa proprio questo: pubblicità, per un pubblico femminile, puntando su eleganza, allure, e via dicendo.
Solo che il video in questione è stato finanziato dalla DG Research and Innovation della UE e fa parte della campagna «Science: it’s a girl thing!» prodotta per convincere le giovani donne europee che fare scienza è un mestiere affascinante, che diventare scienziate non significa necessariamente aderire allo stereotipo vigente, quello dell’anziano eccentrico, sempre infagottato in un camice stazzonato e del tutto privo di qualunque senso estetico.
Uno stereotipo certo poco rispondente al vero. Peccato che per confutarlo si sia scelto di usare un linguaggio altrettanto stereotipato, pieno di luoghi comuni e francamente fastidioso, anche se non si hanno alle spalle anni di impegno femminista. Talmente fastidioso che, dopo numerose critiche, il video è stato rimosso nelle scorse ore dal sito della campagna e sostituito con uno decisamente più aderente alla vita e alle esperienze di una giovane ricercatrice.
Non che io abbia nulla contro i rossetti e i tacchi alti. Anzi. Ma non sono ingredienti che ritengo indispensabili per lo svolgimento di qualunque professione. Né sono elementi utili per una comunicazione capace di parlare il linguaggio delle (giovani) donne, come sembra aver pensato chi ha prodotto questo video. Posto che abbia poi senso dover pensare alle (giovani) donne come a una sorta di categoria omogenea cui sia necessario parlare adottando stratagemmi che, appunto, sono da pubblicità.
Dicevamo che la reazione è stata piuttosto unanimemente negativa. Alcune posizioni sono efficacemente riassunte dal Knight Science Journalism Tracker in una pagina intitolata «Girls! Be a scientist! You too can dance in the Lab in High Heels» che riunisce post e articoli pubblicati da vari media dell’area inglese e americana negli ultimi due-tre giorni. La stessa pagina consente di rivedere il video ormai non più disponibile sul canale YouTube della campagna (grazie a loro, abbiamo fatto qui l’embedding).
Anche l’associazione europea dei giornalisti scientifici, l’EUSJA, ha pubblicato sul proprio sito un commento critico di Elmar Veerman dall’azzeccatissimo titolo Science is not a PR thing. Veerman, oltre a citare l’accesa conversazione su Twitter con #sciencegirlthing sottolinea la differenza tra una campagna di marketing e una di comunicazione, differenza troppe volte ignorata anche dalle nostre istituzioni, scientifiche. Ma dirimente.
In termini di popolarità, infatti, il video ha probabilmente fatto centro. Vuoi per criticarlo, vuoi per discuterlo, è stato visto molto più di quanto sarebbe successo con un video onesto, corretto e non così fastidioso. Che non sarebbe stato commentato dai siti e dai media di mezzo mondo.
Ma questo significa che ha funzionato? No, perché non si è affatto discusso del merito, dell’interesse e la passione che possono scaturire dal fare un lavoro così originale come quello della ricercatrice. Né degli ostacoli che tuttora esistono nei confronti delle donne ricercatrici non tanto in fase di arruolamento ma negli anni successivi. E del perché sia necessario investire risorse per attirare più donne nel mondo della ricerca.
Si è discusso di rossetti, di tacchi, di passerelle. E di quanto un tacco 12 sia incompatibile con la vita di laboratorio, cosa del tutto ovvia quando si è passata anche solo un’ora della propria vita a fare su e giù tra bancone e stanza frigorifero.
Peccato, un’altra occasione sprecata. E pagata con soldi pubblici e non con quelli di una impresa che deve vendere prodotti di bellezza e che sceglie, in piena autonomia e a proprio rischio, le proprie strategie di mercato. (elisabetta tola)
Aggiornamento: oltre a togliere il video dalla pagina YouTube, la Commissione Europea ha twittato «Ok scientists we heard you and we want to keep hearing you: help us build a list of #realwomeninscience». Insomma, ci hanno messo una pezza. Purtroppo rimane lo spreco di un prodotto che, a occhio e croce, è costato un bel po’. Mi azzardo a pensare che sia di più di quanto prende, in un anno di lavoro, una giovane ricercatrice a borsa di studio. Non ne ho le prove, ma non credo di sbagliarmi di molto. Ma almeno la discussione ora si sposta verso argomenti più costruttivi.