Più o meno tutte le mie ricerche ruotano intorno a un sospetto ricorrente: che il modello di sviluppo occidentale sia fondamentalmente in disaccordo tanto con la richiesta di giustizia per i popoli del mondo quanto con l’aspirazione di riconciliare l’umanità con la natura.
Così Wolfgang Sachs riassumeva il proprio pensiero in Ambiente e giustizia sociale. Non è difficile dargli torto. Il protrarsi del dominio dell’uomo sulla natura senza alcun freno ha portato alle crisi molteplici che stiamo vivendo, e l’ultracapitalismo ha accelerato il processo di disgregazione dell’uomo dalla natura, estendendo il modello distruttivo ben oltre l’occidente.
A vent’anni dal vertice mondiale di Rio de Janeiro le nazioni si ritroveranno ancora a discutere di ambiente, ma con una precisa convinzione: quanto più impegnativi sono gli obiettivi fissati in meeting come quello del ’92 tanto più clamorosi saranno i fallimenti. L’Agenda21 che vagiva nel ’92 ha portato ai grandi assenti di Kyoto e infine al disastro di Durban. Proprio alla conferenza di Durban è emerso il nodo della questione: perché i paesi in ascesa devono sacrificare la loro crescita per rimediare agli errori dell’occidente, che per quasi tre secoli ha prosperato indisturbato? Dal canto loro, gli stati iperindustrializzati sembrano muovere all’unisono una questione speculare: perché sacrificarsi al punto da essere superati dai paesi in ascesa economica?
Se il Canada ha risposto con eloquenza ritirandosi dal consesso dei firmatari del Protocollo di Kyoto, si guarda con speranza alla ragionevolezza di nazioni come India e Brasile. Ma proprio il Brasile, che nel ’92 era la speranza dei sostenitori del “capitalismo dal volto umano”, non ha ancora una legislazione ambientale adeguata, procede con il deforestamento intensivo dell’Amazzonia (l’ultimo picco però è avvenuto nel quinquennio 2001-2006, al ritmo di circa 28mila chilometri quadrati all’anno) e mostra pericolose oscillazioni dopo il veto del governo Roussoff alla moratoria per i reati ambientali.
Riconoscendo l’aspetto finanziario deludente nell’approccio alle tematiche ambientali, la comunità internazionale prova ad affrontare la questione del rispetto delle regole in ambito universale. L’istanza è semplice: se le multinazionali possono comportarsi seguendo un diverso manuale di bon ton a seconda del tavolo in cui siedono, può il diritto provare a uniformare quel manuale? La risposta è confusa e poco concreta, persa nell’ipocrisia che normalmente vige nelle dichiarazioni ufficiali dei summit internazionali. Ma tanto in salute non sta neanche il metodo. Esiste una sola branca universale del diritto, quella dei cosiddetti diritti umani. Sarà quella giusta in cui far confluire i problemi dell’ecologia politica e quelli posti dalla gravità della situazione?
Al dibattito filosofico e giuridico montato dagli anni sessanta a oggi, alle istanze più urgenti in vista di Rio+20 e al caso Italia saranno dedicati i prossimi post.