A mente freddaValutazione universitaria? Necessaria, ma non può funzionare per decreto

Chi ha a che fare con la vita e le carriere universitarie sa bene che in questo periodo sono in fase di avanzata messa a punto, dopo un percorso lungo e sofferto, i criteri per stabilire metodi e c...

Chi ha a che fare con la vita e le carriere universitarie sa bene che in questo periodo sono in fase di avanzata messa a punto, dopo un percorso lungo e sofferto, i criteri per stabilire metodi e composizione delle commissioni valutatrici per l’assegnazione delle abilitazioni nazionali a professore associato e ordinario, un passaggio che, allo stato attuale della legislazione, è fondamentale per lo sblocco del reclutamento. Ed è anche noto che la possibilità di partecipare a queste commissioni è ora soggetta a restrizioni: in pratica, potranno accedere solo i docenti la cui produzione scientifica supera un livello minimo di qualità secondo i criteri di valutazione delle riviste e delle case editrici preparata dall’agenzia ministeriale che si occupa della valutazione della ricerca.

Praticamente ogni passaggio di questo complesso processo di valutazioni incrociate, attraverso il quale un classicista direbbe che si cercano di controllare i controllori per evitare il ripetersi dei tanto noti abusi dell’autonomia di giudizio delle commissioni di concorso, è stato criticato, ed è criticabile. Perché una certa rivista vale più di un’altra che è citata con la stessa frequenza? Perché le riviste scritte in una certa lingua valgono di più delle altre a prescindere? Perché è stato scelto arbitrariamente un limite ai prodotti da valutare per chiarire l’efficienza dei singoli dipartimenti, e perché i prodotti con più autori sono soggetti a così tante limitazioni burocratiche nel loro conteggio? Perché, tanto per restare al mio settore, l’ottima Spagna contemporanea è messa tra le riviste di storia contemporanea specialistiche, mentre Italia contemporanea tra quelle generaliste? Bell’internazionalizzazione degli interessi, dirà qualcuno!

Ieri, però, l’Associazione italiana costituzionalisti ha attaccato l’intero sistema alla radice, ponendo una obiezione ben più dirompente perché non fondata sui (legittimi) giudizi di merito, ma sulla legittimità dei metodi. Il presidente dell’AIC, già giudice costituzionale e presidente emerito della suprema corte, ha infatti diffuso un comunicato in cui si osserva che una parte assai rilevante delle procedure di raccolta e di esame dei dati per valutare i profili degli aspiranti commissari violerebbe il principio di non retroattività delle norme:

Si introduce fra gli indicatori di attività scientifica non bibliometrici, che condizionano la valutazione positiva dell’importanza e dell’impatto della produzione scientifica complessiva […], il numero di articoli pubblicati nei dieci anni consecutivi precedenti il bando su “riviste appartenenti alla classe A” […]. In tal modo si fa dipendere la valutazione della qualità della produzione scientifica da un elemento estrinseco (“classe” di appartenenza delle riviste su cui sono comparsi gli articoli) definito ora per allora e con effetto retroattivo, riferendosi la produzione scientifica da valutare ai dieci anni precedenti la indizione della sessione di abilitazione, ma essendo previsto che solo ora sia effettuata la suddivisione delle riviste. Tale disciplina appare lesiva dei principi di eguaglianza e ragionevolezza, nonché del principio di affidamento legittimamente sorto nei soggetti “quale principio connaturato allo stato di diritto”.

Il punto è particolarmente significativo, essenzialmente perché, come si può ben immaginare, apre la strada a un’ondata di ricorsi mirati che potrebbero far saltare l’intero impianto di delimitazione su (supposta) base qualitativa del bacino di aspiranti docenti “attivi” nel reclutamento.

Le reazioni non si sono fatte attendere, soprattutto da parte di chi considera la valutazione della qualità dei docenti dotati di potere decisionale nel reclutamento un elemento essenziale per “risanare” la vita universitaria italiana. Oggi, infatti, il blog Noisefromamerika ha dato spazio a un commento in cui, come spesso accade per questa frizzante pagina di discussione, l’indubbia forza delle argomentazioni si accompagna a un linguaggio altrettanto d’impatto:

L’Italia e’ la riserva mondiale per la protezione e la riproduzione dei diritti acquisiti. Anche il diritto a non pubblicare un cazzo e’ protetto. Lo afferma Sua Eccellenza Chiarissimo Professore Presidente Emerito della Corte Costituzionale Valerio Onida. […] In sostanza dice: uhe’, ragazzuoli, noi siamo entrati nel sistema universitario sapendo che potevamo farci i cazzi nostri. Andare in commissione a promuovere i nostri allievi, diventare ordinari giovanissimi, stare in cattedra e fare la libera professione, il consulente qui, il presidente la’. Fare ricerca e pubblicare era un optional, tanto e’ vero che non c’era nessun controllo della produzione scientifica (ma che è ‘sta produzione scientifica, poi, dico io), nessun ranking delle riviste o delle case editrici (ma che è ‘sto ranking, poi, dico io), monografia per diventare associato, monografia per diventare ordinario. Fa niente se la monografia e’ pubblicata in proprio, cinque-dieci anni fa erano altri tempi.

Per quanto mi riguarda, io mi trovo in una stranissima posizione, perché mi sento di dare ragione a entrambi. Da un lato, è vero, un controllo della qualità professionale innanzi tutto di chi è già nei ruoli dell’università è indispensabile, semplicemente perché siamo tutti d’accordo nel dire che i precedenti sistemi di reclutamento non lo hanno garantito, ed è preliminare a qualunque intervento sulle nuove assunzioni. Rifiutare questa evidenza non è solo bagliato, ma pericoloso per il futuro del nostro mondo accademico, ed è ragionevole pensare che dietro le resistenze a qualunque messa in discussione delle capacità professionali dei nostri ordinari vi siano nella migliore delle ipotesi resistenze corporative, nella peggiore la consapevolezza di avere difficoltà ad uscire vivi da una valutazione seria del proprio ruolo nel mondo universitario.

D’altro canto, il comunicato AIC porta al pettine un nodo che non si può evitare di affrontare. Le rendite di posizione che caratterizzano la nostra vita universitaria (e non solo: ho già detto che il problema è più ampio e riguarda l’intero rapporto tra stato e società per la gestione delle risorse e dei servizi) sono state assicurate da una serie di rigidità giuridiche e contrattuali, e non si può scardinare questo sistema semplicemente proponendo altre rigidità, come è l’imposizione della valutazione della qualità scientifica per decreto. Da nessuna parte un ministero decide cosa è buono e cosa no scientificamente per legge, e proprio l’idea di andarsi a impelagare nel tentativo di disboscare in una selva di privilegi basati su legislazioni troppo rigide approvandone altre porta a dare legittimità a questo genere di reazioni. Forse, se effettivamente si pensasse di aprire il sistema a un’autonomia temperata dalla responsabilità di certificare (in modo assai più semplice e immediato) la qualità del lavoro delle strutture che offrono servizi, questo genere di obiezioni conservatrici perderebbe senso.

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