Quelle che sento sono voci.
Potrei chiamarle “lamentele”. Ma il termine rimanda alla “lagna”, azione tipica di gente sciocca, svogliata e che, peggio ancora, dà fastidio. Queste invece sono voci sparse di persone spesso intelligenti, volenterose e che meritano quello che non sanno esigere: l’attenzione e il rispetto.
Sono una parte dei giovani, forza dimenticata al cospetto di un sistema che ha deciso di abbandonarli o relegarli a mansioni che sono poco più che manovalanza. Il Paese va a picco e chi resta all’ombra di politici e tecnici, pensionati e sindacalizzati, sono loro, forse l’unica speranza.
Le loro voci dicono questo:
Ci hanno consegnato un’Italia a pezzi e non hanno la decenza di dire ‘abbiamo fallito, scusate, ora tocca a voi’.
Ma questi, che sono vecchi, non sono mai stanchi, qualche volta solo arroganti.
Quello che vedo va chiamato con il suo nome. Un esercito di quasi schiavi.
Perché così si chiama chi produce ricchezza che in nessun modo tornerà a loro. Non c’è bisogno di scomodare Marx, basta il buon senso.
Sono i figli di un mantra che in realtà è un equivoco: “Fai esperienza”.
Il malinteso è che quella esperienza porti un vantaggio di natura non economica, ma formativa. Eppure, al netto dei casi virtuosi, che magari si concludono anche con un contratto, il ventaglio delle esperienze proposte è una triste sequela di stage che gridano vendetta.
Voglio solo ricordare che si chiama stage non retribuito di due mesi, tre, sei, anche il lavoro di receptionist d’albergo e lavapiatti stagionali rigorosamente non pagati.
Ma che vuoi? Fai esperienza, te lo metti sul curriculum…
La gavetta è un concetto antidiluviano, sicuramente sensato, ma trasformato nel tempo dal sistema italiano in strumento di potere di rara furbizia a corto raggio e di irresponsabile stupidità a lungo. La gavetta presuppone una carriera lineare.
Sgobba per un po’ che dopo ti prendiamo. Poi, a ogni avanzamento, puoi nonnisticamente far scontare a chi viene dopo quello che hai passato tu.
Da notare, infatti, che il sistema italiano è sostanzialmente orfano del concetto di responsabilità così che l’avanzamento è quasi sempre certo. Meno certo è che dipenda dal merito. La gavetta diventa un passaggio potenzialmente infinito che esige garanzie e trattamento economico nel momento in cui è inserita in un percorso non lineare. La vita lavorativa sta diventando frammentata: il percorso non va da qui (ho 19 anni e lavoro gratuitamente per X) a lì (ne ho 65 e vado in pensione con X); va da qui a lì passando da X, Y, Z, alfa e omega. Nuova lettera, nuovo posto di lavoro. Il punto è che quel posto di lavoro diventa sempre più pericolosamente luogo del NON RETRIBUITO.
Quello che ho intorno è un sistema ingiusto.
I giovani di cui parlo sono cresciuti in piena bulimia di lauree, Erasmus, corsi e master.
Intanto il Paese non faceva sforzi altrettanto notevoli: non innovava e non si attrezzava ad accogliere la gente preparata. Non la vuole o forse neanche sa riconoscerla.
Sono circondata da italiani neanche trentenni che parlano anche tre lingue oltre all’italiano. Talvolta con dottorati considerati per decenni il biglietto da visita della classe dirigente. Questi giovani riescono ancora a essere entusiasti quando conquistano uno stage in cui hanno il rimborso del pranzo e si arrampicano in mezzo a auto-giustificazioni motivazionali tenere eppure insopportabili, perché ingiuste.
Spesso il lavoro svolto è ritenuto -o è- di secondo ordine e appartiene alla sfera di competenze tecniche e tecnologiche. Non necessariamente riguarda il campo in cui si sono formati. Di certo è indispensabile alla sopravvivenza del sistema.
Quello che dichiaro è che siamo davanti a un momento epocale.
Questi giovani lavorano sotto a persone che, forse per la prima volta nella storia, non possiedono necessariamente competenze migliori delle loro. Non siamo più al tempo della bottega (forse ci torneremo) in cui quello che veniva insegnato era un bagaglio di sapienza vecchio di secoli.
Il lavoro che lo stagista fa è quello che i vecchi non vogliono fare. Che, peggio, sono orgogliosi di non saper fare. Lavoro da computer il cui valore non viene capito da chi comanda, preso da smanie carrieristiche, interessato solo a conservare e ampliare i privilegi, talvolta in una posizione conquistata con un decimo degli sforzi dei propri figli o nipoti.
In tutto questo sarebbe da chiarire quale know-how incameri lo stagista se spesso l’unico know-how lo regala, e sottolineo regala, lo stagista all’azienda.
Sarebbe da spiegare se non si chiama presa in giro quella del presunto scambio equo che motiva troppi stage e esperienze lavorative dei generi più disparati.
Mentre il massimo che viene loro dedicato è un servizio sulla disoccupazione e un articolo sui cervelli in fuga, i figli migliori del Paese perdono la fiducia nella generazione dei padri. Gli stessi che avevano promesso che studiare e fare tutto al meglio avrebbe dato la garanzia di non vedersi sprecare.
Valentina Parasecolo