A mente freddaChi vuole salvare la “generazione perduta”?

Nell'intervista rilasciata da Mario Monti di qualche giorno fa a Sette ha suscitato molta attenzione una sua frase sulla "generazione perduta" dei 30-40enni. In particolare, parole come Le rispost...

Nell’intervista rilasciata da Mario Monti di qualche giorno fa a Sette ha suscitato molta attenzione una sua frase sulla “generazione perduta” dei 30-40enni. In particolare, parole come

Le risposte corrette l’Italia avrebbe dovuto darle dieci, venti anni fa, gestendo in modo diverso la politica economica, pensando di più al futuro e un po’ meno all’immediato presente. Alcide De Gasperi diceva che il politico pensa alle prossime elezioni, mentre l’uomo di Stato pensa alle prossime generazioni. Lo sottoscrivo. Quindi la verità, purtroppo non bella da dire, è che messaggi di speranza – nel senso della trasformazione e del miglioramento del sistema – possono essere dati ai giovani che verranno tra qualche anno. Ma esiste un aspetto di “generazione perduta”, purtroppo. Si può cercare di ridurre al minimo i danni, di trovare formule compensative di appoggio, ma più che attenuare il fenomeno con parole buone, credo che chi in qualche modo partecipa alle decisioni pubbliche debba guardare alla crudezza di questo fenomeno e dire: facciamo il possibile per limitare i danni alla “generazione perduta”, ma soprattutto impegniamoci seriamente a non ripetere gli errori del passato, a non crearne altre, di “generazioni perdute”.

hanno suscitato reazioni pienamente giustificate come quelle di Matteo Pascoletti, il quale si sente di chiedere al presidente del Consiglio risposte decisamente più incisive per un problema politico, quello della garanzia di prospettive certe di lavoro e carriera a una parte cospicua della cittadinanza, su cui in pratica si è deciso di soprassedere.

Io sento di non dover chiedere spiegazioni solo a Monti. Noto infatti come la tendenza a cullarsi sulla recriminazione per la triste sorte di noi trentenni, guardandosi bene dal lavorare per mutare la situazione, si stia diffondendo nella società e nell’opinione pubblica. I pensionati hanno i diritti acquisiti, i lavoratori dipendenti più anziani sono inamovibili di diritto o di fatto, i lavoratori autonomi che hanno messo in piedi un’attività quando il mercato era in espansione controllano spesso la concorrenza con le licenze, le ammisisoni agli ordini, ecc. Una soluzione alla questione della “generazione perduta” può passare solo dalla profonda ridiscussione di tutto questo, e quindi chi beneficia di queste barriere difensive alla propria posizione preferisce considerare la situazione irrimediabile, piuttosto che rinunciarvi.

Poi, naturalmente, c’è un governo che si dimostra pavido, e invece di creare gli strumenti legali per (faccio per dire) ridiscutere le assunzioni pubbliche fatte finora evitando i ricorsi si rassegna a riversare tutto il costo sociale su chi assunto non è ancora. Ma forse questo non avverrebbe se non si avesse quest’ampio supporto a favore dei settori sociali e anagrafici privilegiati. Se il mondo del lavoro e delle professioni desse il segnale di voler invertire la tendenza, magari qualcosa potrebbe cambiare. O magari no, ma almeno non si potrà dire di non aver fatto il possibile.

Proprio in questi giorni ho sotto gli occhi un esempio piuttosto evidente. Poco tempo fa si è aperto il processo di abilitazione al ruolo di professore associato all’università: da un lato, essa rappresenta il requisito fondamentale per accedere ai ruoli strutturati, vista la cancellazione del ruolo di ricercatore a tempo indeterminato; d’altro canto, per quella strada devono passare anche i ricercatori già assunti per poter passare alla fascia più alta, ottenendo un maggiore remunerazione e maggiori responsabilità nella determinazione delle politiche di ricerca. Un numero crescente di docenti universitari sta lamentando il fatto che questa situazione porti alla quasi sicura cancellazione di due generazioni di precari, che sono tali per puro accidente (le analisi di sistema hanno chiaramente mostrato che le capacità professionali avevano un ruolo marginale nel reclutamento negli ultimi decenni), e che non verranno assunti perché si privilegerà la promozione dei ricercatori.

Tutto ciò è vero, e sicuramente l’assetto creato dalla riforma del 2010 ha le sue responsabilità. Ma non è inevitabile. Ma, come ha detto con una provocazione che secondo me coglie nel segno Giovanni Federico (autore con cui sulla gestione dei risparmi di spesa nell’università ho qualche volta anche polemizzato),

le università dovranno fare alcune riorganizzazioni, i professori dovranno insegnare di più e si dovrà forse chiudere qualche corso. Il problema è più grave per i “giovani” (spesso non più tali anagraficamente) precari che aspettano un posto fisso o almeno la possibilità di concorrere ad un posto quasi-fisso. Molti di loro saranno delusi. Quanti in concreto dipenderà dalle scelte degli atenei: useranno i pochi soldi disponibili per nuove assunzioni o per promuovere ricercatori ed associati già in servizio? Il comportamento sarà un test interessante per capire quanto l’ostentata preoccupazione per la triste sorte delle giovani generazioni sia sincera.

Nessuno ha ordinato di ascoltare le rivendicazioni e le richieste dei ricercatori strutturati, che sono già assunti e che quindi, anche se non saranno promossi, avranno comunque il dovere di contribuire alla vita universitaria al meglio delle loro capacità (oppure potranno dimettersi, se riterranno di poter avere maggiori soddisfazioni in altre realtà professionali, ché il lavoro in Italia non è ancora forzato). Se si manterranno dove sono i ricercatori, e i (pochi) nuovi posti disponibili saranno tutti utilizzati per garantire una qualche fluidità all’immissione nei ruoli di forze nuove, si darà un segnale importante: il segnale di non volersi rassegnare alla progressiva riduzione dei ruoli della docenza universitaria in un momento in cui, per venire in contro alle necessità di un paese avanzato, c’è bisogno di un loro ampliamento; il segnale di comprendere le priorità del sistema-università meglio di chi ha proposto una riforma pessima, che però non può diventare l’alibi per uniformarsi a quel comportamento che a parole si condanna.

In questa prospettiva, infatti, saltare a pie’ pari le esigenze dei ricercatori già “fissi” (che il giorno dopo il fallimento del loro tentativo di diventare associati mangeranno lo stesso, cosa che dei precari non si può dire) in favore di chi non è ancora stato assunto comporterà una più efficiente distribuzione delle risorse, visto che con gli stessi soldi si creeranno (pochi, ma meglio di nessuno) nuovi posti di lavoro in luogo di un semplice aumento del monte-stipendi determinato dalle promozioni: questo potrebbe migliorare l’efficacia dei programmi didattici e darebbe maggiore continuità a molti progetti di ricerca, grazie alla presenza di un maggior numero di “braccia” di buona qualità impegnate a tempo pieno. Naturalmente, per raddrizzare la situazione servirebbe altro, e ho già spiegato come secondo me si dovrebbe procedere. Ma visto lo stato attuale delle cose, e le effettive possibilità dei vertici accademici, sarebbe un inizio.

Ma nessuno lo farà, e soprattutto nessuno penserà neanche lontanamente a considerare plausibili posizioni che non mettano in prima fila la soddisfazione degli interessi di chi, rispetto a un numero crescente di operatori accademici, gode già di un privilegio. Piuttosto si parlerà di simili rivendicazioni come della classica “guerra tra poveri” da evitare per affrontare al meglio, tutti uniti anche quando chiaramente gli interessi sono diversi, il “nemico” che sarà sempre e solo il governo. Perché quando si parla di “generazione perduta”va bene lamentarsi del fallimento delle politiche per un miglioramento delle loro condizioni, non certo mettere in discussione le buone abitudini che i più anziani hanno acquisito negli anni precedenti.

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