Il modo migliore per commemorare il ventennale della strage di via d’Amelio l’ha trovato indiscutibilmente Vittorio Feltri con l’editoriale odierno de Il Giornale intitolato «Che barba la mafia. È solo “cosa loro”».
Incipit: «L’ultima volta che ho letto un articolo sulla mafia credo risalga a trent’anni orsono. L’argomento non mi interessa, a meno che non sia trattato da Leonardo Sciascia». Come dargli torto? Del resto, «Cosa nostra è un affare siciliano, e la Sicilia è lontana, incomprensibile. L’ho visitata senza comprenderla». Dichiarata la propria incompetenza sul tema, al posto di fermarsi qui, come suggerirebbe la logica, Feltri prosegue: «Osservando la splendida natura, ho constatato che la regione è una miniera d’oro non sfruttata per imbecillità: con quelle coste, con quei paesaggi, con la cultura che si respira nella zona, è sorprendente rilevare come la gente sia in bolletta, campi di espedienti – in certi casi criminali – e di impiego pubblico, il che è lo stesso». Lo slogan di vaga reminescenza leghista potrebbe chiudere l’articolo, ma purtroppo non è così.
Arriviamo al fulcro del pezzo: «Mi dicono che la mafia sia un fenomeno da interpretarsi in chiave storica. Sarà vero, ma a me sembra una faccenda di cui si debbano occupare i carabinieri». Già, magari i Mori e i De Donno imputati per la famigerata trattativa tra Stato e mafia… Ancora: in merito alla cultura dimostrata dai mammasantissima arrestati, «se i citati individui [Riina, Provenzano e Brusca, nda] erano leader della mafia, ignoranti e cafoni, perché sono stati in grado per lustri e lustri di rimanere latitanti dormendo, tuttavia, al proprio domicilio? Non in montagna, in un casolare sperduto nei boschi, bensì in quartierini sudici, in città. […] La conclusione è solamente una: se uomini così bassi sono riusciti per tanto tempo a sfuggire alla giustizia, significa che coloro i quali li braccavano invano erano più bassi ancora». Chapeau: sorvolando su Brusca (ricordiamo solo che è stato arrestato nel 1996 dal tanto inviso al centrodestra Giancarlo Caselli), è forse il caso di rammentare come Provenzano e Riina siano stati latitanti rispettivamente dal 1963 (fino al 2006) e dal 1969 (fino al 1993), dunque anche negli anni degli eroi antimafia Falcone e Borsellino, evidentemente «più bassi ancora» dei due analfabeti siciliani.
Proseguiamo con la seguente frase: «Sono trascorsi venti anni e più dalla soppressione violenta di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ma siamo ancora qui a discuterne. Che barba». Confrontatela con questa dell’8 settembre 2009 di tale Berlusconi Silvio: «So che ci sono fermenti nelle procure di Palermo e Milano che ricominciano a guardare a fatti del ‘92, ‘93 e ‘94. È follia pura. Quello che mi fa male è che gente così, con i soldi di tutti noi, faccia cose cospirando contro di noi che lavoriamo per il bene comune del Paese». E la trattativa tra Stato e mafia? Ovviamente solo «supposta», in ossequio alla migliore tradizione del recentissimo giornalismo italiano, è comunque «roba vecchia, di cui pochi hanno memoria», un «pastrocchio» nel quale «sarebbero coinvolti addirittura ministri dell’epoca e il presidente della Repubblica attuale, in un groviglio di sospetti, intercettazioni telefoniche e porcate varie. Verità o bugie? Non ce ne frega niente», come insegnava già Mussolini che – come è noto – si erge statuario sulla scrivania del nostro Vittorio, a quanto pare poco interessato a sapere su quali basi si fonda la seconda Repubblica.
Con tutti questi discorsi, cosa ci sta dicendo Feltri? Egli vorrebbe solo che «[…] la mafia smettesse di essere l’ombelico della nostra povera patria, due terzi almeno della quale non c’entrano con la criminalità organizzata, ignorandone malcostumi e nefandezze». Infatti questa concentrazione su «una questione marginale, per quanto grave, quale la mafia, contribuisce allo sputtanamento del Paese», come ben ci ha ricordato in passato il solito Berlusconi («Se trovo quelli che hanno fatto nove serie de La Piovra e quelli che scrivono i libri sulla mafia e che vanno in giro per tutto il mondo a farci fare una così bella figura, giuro lo strozzo», (28/11/2009).
Certo, ammette Feltri, è innegabile che «al Centro e al Nord dello stivale la filiera mafiosa ha affondato qualche radice», ma del resto è «ovvio, il denaro sporco si aggrega a quello pulito». Non si sa in base a quale legge fisica questo dogma sia ovvio (gli unici con tale Mafia s.p.a. siamo noi), ma tant’è. Resta un fatto: «se questo è un affare siciliano, se lo grattino i siciliani. Ma grattino forte», evidentemente nel nome di un federalismo che abbandona le singole regioni alle loro specifiche magagne, sorvolando allegramente sul fatto che anche Borsellino – come disse alla moglie Agnese in uno dei giorni che separano Capaci da via d’Amelio – sapeva che ad ucciderlo non sarebbe stata la mafia («Mi uccideranno. Non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri»).
Siamo arrivati alla chiusura: «Un quarto di secolo fa, il sindaco di Palermo era Leoluca Orlando, critico aspro di Giovanni Falcone, ammazzato dalla mafia. Oggi il sindaco di Palermo è ancora Leoluca Orlando: eletto dai palermitani. Ma allora, si può sapere che vogliono i siciliani da noi? Vogliono lo status quo? Se lo tengano. Non ci possiamo fare niente. Libera nos a malo». Ragionamento interessante, che a Feltri proponiamo di applicare anche al nuovo candidato del centrodestra per le prossime elezioni, quello che ha assunto il mafioso Mangano per «convergenti interessi» con Cosa Nostra, beneficiata dallo stesso con versamenti di «cospicue somme» (citiamo dalla recente sentenza della Cassazione sul caso Dell’Utri), come del resto confessato dal noto statista in una celeberrima telefonata fortunatamente intercettata.
Come rispondere a Feltri, sostenitore con questo articolo della solita tesi che vorrebbe i mafiosi come un gruppo di sanguinari contadinotti semianalfabeti? Nel ventennale delle stragi, sarebbe forse il caso di dare ancora la parola a chi la mafia l’ha conosciuta bene, ovvero Borsellino, capace ad une mese dalla morte di Falcone di una frase come questa: «La lotta alla mafia non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità».
ALESSANDRO BAMPA
per Wilditaly.net