Bene ha fatto Alessandro Marzo Magno a ricordare su queste pagine la violenza dell’esercito italiano e la brutalità dell’occupazione italiana in Jugoslavia tra il 1940 e il 1943, soprattutto se si considera il dato di conoscenza media di quella storia, come testimoniano gran parte dei commenti al suo testo.
Eppure si potrebbe osservare come i dati e le informazioni non siano inarrivabili.
Nel 2003, d’accordo molti anni dopo quei fatti, comunque non ieri, usciva in libreria, in lingua italiana un corposo volume sulla storia dell’occupazione italiana durante la seconda guerra mondiale. Si intitolava Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943), l’autore era Davide Rodogno, un giovane dottorando, e l’editore era Bollati Boringhieri. Certo la mole scoraggiava (586 pagine), ma leggerlo ne sarebbe valsa la pena, perché si potevano apprendere cose istruttive e, soprattutto, avremmo fatto a meno di cadere dal pero dieci anni dopo.
Rodogno per esempio, in quellibro si soffermava in particolare sui contenutio della circolare del Generale Mario Roatta per la repressione delle popolazioni slave (pp. 401-405), in cui Roatta sviluppa l’idea di campi di concentramento, delle fucilazioni di massa, della repressione radicale.
Si dissolve così l’ipotesi di un’occupazione morbida, benevola, comunque non violenta e con essa dell’esercito italiano senza colpe, monmdo di violenze , a differenza dell’alleato tedesco.
Tornano in queste pagine dedicate alla violenza dell’esercito italiano soprattutto nei Balcani, le immagini e gli stereotipi di un’ideologia fortemente innervata di razzismo antislavo, o comunque fondata sull’idea della inferiorità delle popolazioni slave. Non è solo un problema di tecniche della repressione, in merito alle quali, osserva Rodogno “nella pratica della repressione, la fenomenologia e la tipologia delle azioni concrete, previste e realizzate dalla forze italiane non furono diverse da quelle riscontrabili nella Wehrmacht, nelle forze delle SS e della polizia tedesca coinvolte in operazioni analoghe” (p. 398). E’ anche un aspetto che attiene al progetto complessivo con cui l’occupazione è pensata. Un aspetto che Rodogno affronta in un lungo capitolo (“L’italianizzazione forzata delle nuove province”) e che meriterebbe da solo di essere seriamente meditato. Una pratica quella del processo di italianizzazione delle aree occupate, dove l’arroganza dell’occupante, il senso della missione di civilizzazione o di presunto autoinvestimento di “missione civilizzatrice”, e il senso dell’impotenza spesso si incrociano e si sovrappongono.
Italianizzare significa trasformare il modello educativo e scolastico, espellere una parte del corpo insegnante perché “razzialmente” non omogeneo; favorire o premere per la costruzione di una coscienza pubblica “italiana” e dunque comprimere e deprimere la presenza di altre forme culturali. Un aspetto questo, peraltro che il regime aveva già attuato all’interno stesso del territorio metropolitano italiano nei confronti delle minoranze interne e che aveva sperimentato in forme allargate nelle colonie e che in un qualche modo costituisce uno stile, più che un eccezione o un incidente di percorso. E’ invece il percorso. In quel percorso la vicenda del campo di Arab non è l’eccezione. E’ la regola. Per questo non c’è da stupirsene.
8 Luglio 2012