Nonostante il mio interesse per l’argomento, non ho mai ricevuto una seria preparazione disciplinare nella storia dello sport. Parlo di storia “vera”, attenta alle dinamiche politiche, sociali, e culturali, non al giornalismo sportivo (solitamente il più scadente, per la qualità del personale che se ne occupa nelle redazioni) infarcito di epica e applicato al passato che di solito ci propinano gli autori di libri e programmi TV italiani. Del resto, in Italia mancano centri di studi storici e istituzionali dello sport come quelli messi in piedi negli ultimi anni dall’Università di Manchester, e se si eccettua un primo esperimento nostrano poi sostanzialmente non ripetuto, il più autorevole studioso dei due nostri sport principali, calcio e ciclismo, è un britannico, John Foot. Si tratta però di una mancanza più grave di quanto potrebbe sembrare a prima vista: lo sport ha una funzione economica, politica, identitaria, culturale notevolissima nell’età contemporanea, e non studiarlo come si deve significa essenzialmente non poter capire un pezzo della nostra società. Per accorgersene, basta guardare all’importanza planetaria dell’evento che avrà luogo da qui a poche ore, la cerimonia di apertura dei Giochi olimpici di Londra.
Proprio per questa occasione mi è venuta voglia di abbozzare una piccola riflessione di natura storica su uno dei fenomeni che caratterizzano lo sport di oggi e i suoi complessi rapporti con la società, la politica la comunicazione: il doping. Forse, ragionare un po’ sulla grande “macchia nera” del fenomeno sportivo contemporaneo potrebbe essere utile anche a guardare con occhio diverso le imprese e le eventuali condanne che stiamo per vivere. Naturalmente, come ho detto, si tratta solo di riflessioni sparse, senza un progetto analitico dietro.
Il tentativo di alterare le proprie prestazioni fisiche con pratiche in varia misura e in vario modo assimilabili alla farmacologia è antichissimo: solo per restare allo sport moderno, quello post-1896, nelle gare di resistenza l’assunzione di eccitanti i tentativi di lenire il dolore muscolare per prolungare gli sforzi senza effetti immediati erano già molto popolari ai primordi: se ne parla per la maratona e il ciclismo alle Olimpiadi di Saint Louis 1904, e quattro anni dopo a Londra avevano molto probabilmente avuto accesso a eccitanti piuttosto pesanti sia il vincitore “formale” della maratona Johnny Hayes, sia l’eroe rimasto immortale nel ricordo di tutti, Dorando Pietri.
C’è da dire però che per decenni non esistettero precisi e articolati sistemi di regolamentazione e divieto, se non nelle singole competizioni. Il tentativo di migliorare le proprie prestazioni con qualunque pratica e sistema era percepito come possibile, anche se non del tutto “legittimo” per ragioni più che altro di mera sportività, e del resto ancora nel 1952 Fausto Coppi poteva dichiarare candidamente in un’intervista come l’uso della “bomba” fosse comune in tutto il gruppo.
Del resto proprio nel ciclismo, sport che per le sue specifiche caratteristiche sarebbe diventato terreno di caccia principale per il doping, i primi tentativi di limitare il fenomeno si ebbero dopo la tragedia di Tom Simpson, morto per una “overdose” in una drammatica tappa alpina del Tour de France 1967 praticamente in mondovisione, e avevano essenzialmente il compito di tutelare la salute degli atleti, più che di garantirne la lealtà nei risultati. Sicuramente, la morte di Simpson rappresentò uno spartiacque, per l’impossibilità di continuare nella sostanziale sottovalutazione del pericolo dell’assunzione indiscriminata di sostanze che interagivano con la fisiologia dell’organismo e nascondevano i segnali del raggiungimento dei limiti di resistenza, ma ebbe tale importanza essenzialmente per la sua visibilità. Già alle Olimpiadi romane del 1960 un altro ciclista, il danese Knud Jensen, moriva per l’abuso di anfetamine in una gara, ma l’evento poté passare sostanzialmente sotto silenzio, così come non ricevettero particolare attenzione alcune morti precedenti.
Questa cortina del silenzio, e la sostanziale rarità di casi di doping conclamati con effetti sulla carriera sportiva nel ventennio successivo, dovrebbero far pensare al fatto che piuttosto precocemente sull’uso sistematico di sostanze si stava costruendo qualcosa in più di alcuni casi occasionali. Nel corso della guerra fredda lo sport, soprattutto lo sport olimpico, era diventato terreno di confronto tra le superpotenze o per l’affermazione di paesi satelliti ambiziosi (come la Germania Est, seconda nel medagliere di Seul nel 1988). In questo clima si istituì un sistema rigoroso e scientifico di “doping di stato”, che, pur con le profonde differenze dovute ai diversi modi di gestire il fenomeno sportivo, avrebbe profondamente influenzato il modo di intendere le competizioni nei principali paesi del mondo.
Da questo punto di vista non appare casuale che il primo grande scandalo doping al crepuscolo della guerra fredda, quando le pressioni delle grandi istituzioni sportive su base nazionale iniziavano a lasciare maggiore libertà ai centri di controllo della corretta pratica sportiva, riguardasse Ben Johnson.
Appartenente a una federazione debole come quella canadese, “colpevole” di essere rivale del ben più protetto Carl Lewis, alla fine degli anni Ottanta Johnson vide la sua carriera sostanzialmente distrutta da alcuni dei provvedimenti più pesanti mai presi per casi di doping.
Fu soprattutto a partire da questo momento che si impose definitivamente, almeno per quanto ne so, la tendenza a guardare l’assunzione di sostanze dopanti come un attentato alla lealtà sportiva, dopo che per anni pratiche di quel tipo erano guardate dagli staff medici delle federazioni con la stessa attenzione, e con lo stesso atteggiamento, con cui si guardavano l’allenamento in altura o le sedute di ossigenazione. Eppure, l’incorporazione di questa idea nel giuramento olimpico a partire dal 2000 delle parole “per uno sport senza doping e senza droghe” ha finito per consacrare questa idea come se fosse connaturata alla storia dello sport.
Inoltre, il caso Johnson è anche il primo esempio, almeno a livello così eclatante (riguardava gare olimpiche e mondiali e coinvolgeva l’autore di un record del mondo spettacolare, 9.79, poi imbattutto per circa due decenni) di colpa ritenuta esclusivamente individuale. L’atleta “pescato” con i valori sbagliati, ormai è consuetudine, viene additato da tutto il mondo che lo circonda come il traditore, l’unico colpevole, ma nei fatti è il capro espiatorio perché l’intero sistema di accesso e impiego delle sostanze continui ad avvenire secondo criteri e strutture organizzative mai smantellate dai tempi della guerra fredda, nel sostanziale disinteresse del pubblico. Del resto i media, che ormai costantemente mettono al centro dell’attenzione il mondo sportivo, trovano nel singolo colpevole l’obiettivo contro cui scagliarsi per ricostruire la verginità di un mondo di cui anch’essi fanno parte la cui delegittimazione avrebbe costi economici, sociali e politici forse insostenibili.
Di questa colpevolizzazione dell’individuo per salvare il sistema, a volte così chiaramente “cattivo ragazzo” da essere un fin troppo facile bersaglio, a volte così sensibile da rimanerci sotto e non riprendersi più, abbiamo tutti in mente casi estremamente diversi tra loro ma ben scolpiti nella memoria, come quello del 1994
e del 1999.