A mente freddaItalia-Spagna, il figlio di Prandelli e la legittimità

E così, purtroppo, abbiamo perso la finale. Di più, ci hanno sbranati. Nulla ci toglierà l'impresa di una nazionale andata molto oltre i suoi mezzi e capace di battere squadre con ben altre ambizio...

E così, purtroppo, abbiamo perso la finale. Di più, ci hanno sbranati. Nulla ci toglierà l’impresadi una nazionale andata molto oltre i suoi mezzi e capace di battere squadre con ben altre ambizioni, ma resta il fatto che, se c’è differenza tra una sconfitta onorevole contro la squadra più forte del mondo e una disfatta, noi abbiamo ampiamente valicato il confine. Colpa dell’inesperienza a questi livelli di molti giocatori e del tecnico, perché noi abbiamo mostrato di saper controllare la Spagna in altre occasioni, mentre qui abbiamo cercato di fare un gioco che già solo nel girone eliminatorio non ci siamo nemmeno sognati di proporre.

Ma colpa, soprattutto, di una condizione atletica inadeguata da parte di tutta la squadra, e di una qualche avventatezza a mandare in campo due giocatori le cui condizioni si sono rivelate, nel giro di pochi minuti, quelle di infortunati. Sull’inesperienza poco si può dire, e si può solo sperare (da parte di tutti, anche se è difficile) che la squadra che fornisce il blocco azzurro abbia la possibilità di far maturare i suoi effettivi partecipando a, e vincendo, un buon numero di partite di alto livello, così da ricreare una generazione come quella che ha coronato la carriera nel 2006; sulla condizione atletica, invece, si può dire qualcosa, in un discorso che va ben oltre il calcio e che può servire, come ho già detto in altra sede, per spiegare a un popolo di sessanta milioni di commissari tecnici come vanno le cose in altri ambiti della vita professionale.

Le spiegazioni per questo crollo possono essere molte, e tutte legittime. Dovevamo affrontare un girone duro, con la Spagna già all’esordio, e quindi dovevamo essere in piena condizione subito e non partire con calma come spesso hanno fatto altre nazionali vincenti. Questo naturalmente poteva portare al rischio di arrivare in debito d’ossigeno alla sesta partita, ma diciamo la verità, quanti, anche tra i tecnici, avrebbero scommesso che avremmo giocato sei partite? Magari col materiale umano che si aveva (la nostra squadra ha effettivamente tutti i limiti tecnici che sono venuti fuori ieri, anche se per un po’ è riuscita a nasconderli alla grande, complici anche due avversarie scese in campo con sufficienza) era davvero impossibile evitare la sindrome della coperta corta.

Quindi, chiunque fosse stato il collaboratore di Prandelli alla preparazione fisica e atletica dei giocatori, questi elementi devono essere tenuti presenti. Ma uno dei preparatori atletici dell’Italia è Niccolò Prandelli, e come tutti sappiamo quella col c.t. non è un’omonimia. E sappiamo anche che il commissario tecnico, di solito, per contratto, ha la possibilità di nominare i suoi collaboratori più stretti personalmente e d’autorità. Quindi, bene ha fatto Massimiliano Gallo nei suoi commenti a caldo post-partita (su cui, udite udite!, concordo in pieno) a mettere in evidenza il fatto:

Una menzione non può non meritarla la preparazione atletica. I nostri già boccheggiavano contro la Germania, oggi proprio non correvano mentre gli spagnoli, che pure erano andati ai rigori contro il Portogallo, sembravano freschissimi. Magari ai Mondiali, se dovesse essere ancora lui sulla panchina, farebbe bene a evitare di ingaggiare il figlio nell’équipe.

Come ho detto sopra, tra insinuare questo legittimo dubbio e individuare in Niccolò Prandelli e in chi l’ha assunto l’unico responsabile della prestazione insufficiente ce ne corre: forse, davvero, non c’erano altre soluzioni. Ma il dubbio rimane, proprio per le procedure opache nella scelta del preparatore atletico e per una contiguità con il suo diretto superiore che suona effettivamente come aperto conflitto d’interesse. E questo sospetto, soprattutto se casi del genere si ripeteranno, rischia di gettare sulla gestione Prandelli un’ombra che, per i risultati di gioco che ha comunque dimostrato di raggiungere, il c.t. e la squadra non meritano di subire.

E questo discorso può valere su un piano più generale quando si parla con superficialità, in qualunque settore professionale, dei “raccomandati” non meritevoli che “rubano” il posto a quelli bravi. La questione non è mai così semplice: le procedure di selezione più accettabili e condivisibili non necessariamente portano alla scelta migliore, e viceversa. Resta però il fatto che, all’università come in nazionale, assumere qualcuno con procedure che agli occhi dell’opinione pubblica non hanno legittimità lascerà sempre un alone di sospetto, pronto ad esplodere alle prime evidenze di fallimento nella selezione, e spesso pronto a travolgere anche chi non lo merita (come il caso di uno dei migliori genetisti italiani, a cui si chiede di giustificare una posizione in cui è giusto che stia solo perché ha la ventura di essere figlia di un ministro). E in fondo la necessità di individuare ed applicare sistemi di selezione e di valutazione legittimi e trasparenti serve proprio a questo: a evitare i sospetti e le facili recriminazioni, non ad annullare un margine di errore che, sa bene chiunque abbia studiato la questione, è connaturato a qualunque procedura di scelta.

Entra nel club, sostieni Linkiesta!

X

Linkiesta senza pubblicità, 25 euro/anno invece di 60 euro.

Iscriviti a Linkiesta Club