Qualche giorno fa mi è capitato sotto gli occhi un post del blog di Aldo Giannuli su crisi e studi economici. L’ho letto essenzialmente perché l’autore (qui la voce dedicata a lui su Wikipedia) è anch’egli uno studioso di Storia contemporanea, e anche di una certa fama, a differenza del sottoscritto. Pensavo quindi di trovare qualche riflessione di una certa profondità, ma devo dire che su diversi aspetti sono rimasto piuttosto perplesso.
Tanto per cominciare, l’assunto generale, in base al quale tra i maggiori responsabili dell’attuale situazione economica sarebbero gli studiosi, i “‘geni dell’economia’ […] che la crisi non l’avevano prevista nemmeno il giorno prima del fallimento della Lehman Brothers e che ridicolizzavano i pochi che ne segnalavano l’arrivo”. Questa è effettivamente una affermazione che on line ho letto spesso, e che ogni tanto sono stato tentato di avallare. Riconoscendo però di non aver seguito con sufficiente attenzione il dibattito sviluppatosi nell’ultimo decennio nei dipartimenti di Economia, ho chiesto a qualcuno che ci ha lavorato, e in generale, da fonti diverse, la risposta è stata la stessa: si tratta di una posizione sbagliata. Che la crescita degli anni 2000 dipendesse essenzialmente da bolle di natura finanziaria, soprattutto nel campo immobiliare, era cosa abbastanza ben rilevata, sia per gli USA che, tanto per fare un esempio che ora è tanto più inquietante, per la Spagna. Infatti uno dei dibattiti più accesi nel campo della politica economica era proprio se vi fosse modo di disinnescare una bolla prima che esplodesse, dal momento che a quanto ho capito questa operazione significava interrompere una crescita economica ottenuta senza bisogno di grandi rivoluzioni tecnologiche per l’aumento della produttività, che in Occidente portava posti di lavoro e redistribuzione di ricchezza attraverso il welfare con poca fatica. Bloccare un circuito del genere, questo si capisce facilmente, significava giocarsi una bella fetta di consenso, e in politica il consenso ha il suo peso.
Vera o falsa che sia questa interpretazione alternativa (ed è probabile che le due proposte non si escludano in modo così radicale), resta il fatto che individuare negli economisti i responsabili principali della crisi è tutt’altro che pacifico, se non altro perché effettivamente presuppone una meccanicità del rapporto tra riflessione teorica e sviluppo delle politiche pubbliche che empiricamente non si dà: detto in altri termini, i politici generalmente ascoltano gli studiosi solo nella misura in cui i loro studi supportano (magari con alcune forzature interpretative) le politiche che hanno già in mente di fare, e questo avviene anche quando gli studiosi di cui sopra acquisiscono un ruolo politico, come si vede dalla difficoltà con cui l’attuale governo riesce a mettere in pratica le linee direttrici di cui i suoi componenti erano assolutamente convinti dalla cattedra.
Ma Giannuli si spinge più avanti, e per giustificare la sua affermazione di partenza entra in un campo in cui mi muovo meglio. Infatti scrive:
Da cosa dipende questa straordinaria cecità?
I maggiori responsabili sono gli “economisti”, cioè quanti occupano cattedre universitarie, centri studi di grandi banche, ecc che, (salvo qualche mosca bianca) sono tutti di dichiarata e granitica fede neo liberista e sono totalmente incapaci di un minimo di laicità che gli consenta il benché minimo dubbio sui propri dogmi. Ma, in fondo, non è colpa loro: povera gente che conosce solo le quattro formule neo classiche che ripetono alla noia, si trovano in quei posti perché ce li ha collocati il vento dell’anti rivoluzione liberista che si illudono di aver suscitato. Negli anni settanta-ottanta negli Usa, in Inghilterra e poi, man mano, negli altri paesi occidentali iniziò un processo di espulsione di qualsiasi corrente culturale alternativa a quella neo liberista, lo strumento fu quello della “peer review” per cui prevalevano quelli che scrivevano sulle riviste più autorevoli o partecipavano ai convegni internazionali più fastosi, solo che le riviste più accorsate erano tali perché finanziate con valanghe di dollari dalle maggiori banche che provvedevano anche a finanziare i convegni internazionali. Ed ovviamente, i finanziamenti arrivavano solo agli istituti ed alle riviste orientati “bene”. Mass media e consulenze fecero il resto ed una responsabilità gravissima la ebbe il Premio Nobel che promosse fior di cialtroni e truffatori, purché dichiaratamente liberisti.
L’operazione “pensiero unico” ebbe successo: l’economia fu costantemente sinonimo di pensiero liberista. Economisti furono riconosciuti solo quelli che suonavano solo lo spartito che il padrone voleva sentire. D’altro canto, le consulenze bisogna pur meritarsele e non è educato sputare nel piatto in cui si mangia.
Se prima potevo solo aver sentore che le argomentazioni addotte fossero quantomeno incomplete, qui ne sono pressoché certo. E vado ad elencare alcuni spunti:
- L’autore si muove senza tener conto di quanto sappiamo della sociabilità accademica. A quanto ci risulta, in qualunque università dei paesi con un sufficiente grado di libertà di ricerca le rilevazioni effettuate dagli anni Cinquanta (quando si sono sviluppati l’interesse per l’area di studio e le tecniche di survey) a oggi mettono in evidenza che il pluralismo in tutti i campi non è mai venuto meno, anche nelle scienze sociali, dove lo sforzo di separare i criteri di scientificità e le posizioni ideali era indubbiamente più difficile. Anzi, se si vuole individuare una tendenza, in alcune realtà accademiche di medio livello il personale tende ad essere spostato più frequentemente della media verso posizioni progressiste, liberal o radicali, e questo sembra valere anche nei dipartimenti di Economia. Di fronte a impressioni come queste, alcuni studiosi si chiedono infatti come mai, nell’opinione pubblica generalista, vengano scambiate così facilmente per posizioni “neoliberiste” (perché neo-, poi?) gli assunti di base della scienza economica, che rimangono materiale operativo imprescindibile anche per chi ha orientamenti keynesiani (a cui sono stati assegnati anche premi Nobel nel corso dell’ultimo trentennio) e persino per gli economisti socialisti (che ci sono).
- Sulla questione della peer review, mi sembra che da un po’ di tempo sia maturata da queste parti la diffidenza tipica delle cose che non si conoscono e si percepiscono come minacciose. Per chi non lo sapesse, si intende con questo termine esotico la pratica delle redazioni delle riviste scientifiche di far valutare gli articoli proposti per la pubblicazione da parte di personale scientifico esterno ritenuto esperto nell’ambito di ricerca (un criterio simile si sta impiantando con successo anche nella valutazione dei progetti di ricerca per borse e finanziamenti). Nelle scienze umane e sociali, la nacessità alla base di questa scelta è essenzialmente quella di garantire una precisa differenziazione operativa tra la produzione di riviste scientifiche, pensate per un pubblico professionale e deputate alla circolazione di prodotti a elevata maturità metodologica, e quella di riviste culturali (magari degnissime partecipi di dibattiti intellettuali). L’idea è che in questo modo, nella scelta dei contributi, non conti soltanto l’orientamento della redazione, che magari condivide un progetto culturale e ha la tendenza a selezionare solo materiale che più direttamente si inserisca in certe posizioni precostituite, ma anche quello di studiosi da essa indipendenti, che valutino l’accettabilità di massima di metodi e procedure nell’ambito della comunità scientifica di settore. Le critiche a questo sistema non mancano, in particolare alla sua impermeabilità a nuovi approcci scientifici e a nuove prospettive di ricerca (che però possono portare a criticarne il conservatorismo scientifico, che è cosa ben diversa da quello politico-ideologico, ed anzi può spesso collocarsi nella difesa a oltranza di posizioni di segno opposto, come ben sa chi in Italia studia la storia del Partito comunista italiano). Quello che qui interessa rilevare è che la peer review di per sé non porta necessariamente a conclusioni più omogenee della semplice selezione di redazione. Anzi, se in Italia i due procedimenti appaiono radicalmente contrapposti perché la peer review è stata nei fatti imposta come alternativa ai risultati chiaramente insoddisfacenti della selezione tradizionale, nel mondo anglosassone lo sviluppo di tale procedura è avvenuto senza particolari soluzioni di continuità, come passo supplementare attraverso cui le maggiori riviste verificavano preliminarmente la reazione dei lettori più qualificati. Allo stesso modo, quando l’autore sembra (senza essere troppo chiaro) ampliare la sua critica all’intero sistema di reclutamento del personale accademico basato sulla qualità della produzione scientifica valutata in base alla collocazione delle riviste e alla loro circolazione, mi sembra che le (ragionevolissime) critiche ai tentativi di impiantare questo sistema in Italia per decreto e con tecniche inspiegabilmente rigide siano ampliate anche alle aree geografiche in cui esso, pur con tutte le riserve che può creare come qualunque procedura di reclutamento, si è evoluto nel corso del tempo come sistema di raccolta e di libero utilizzo delle informazioni migliori sugli aspiranti docenti.
- In generale, a me semba che l’autore amplii indebitamente al piano internazionale spunti polemici sviluppatisi nella situazione specifica del nostro paese. Come già avevo notato in precedenza, in interventi come questo si dà l’impressione di sposare alcune delle critiche (per molti aspetti fondate) allo sviluppo “imprenditoriale” dell’università in Europa e in America circolanti in tutto il mondo, per dare giustificazione intellettuale alle ben più discutibili conclusioni di docenti per cui la soluzione dei problemi dell’università italiana è il mero rifiuto di qualunque modifica degli assetti intervenuta dagli anni Novanta in poi. Obiettivi nemmeno troppo nascosti di discorsi come questi sono il mantenimento di un sistema di reclutamento e di creazione del prestigio scientifico che ha da tempo mostrato la sua inefficienza, e di conseguenza il ritorno a una situazione in cui le scelte di reclutamento, di gestione dei fondi e di sviluppo della comunicazione accademica erano lasciate in modo praticamente sovrano a singoli docenti, senza alcuna necessità di confronto non solo con l’esterno, ma neppure con l’intero mondo dei cultori qualificati del proprio campo di studi. Assecondando queste posizioni, si rischia di cadere proprio nell’atteggiamento duramente criticato a suo tempo da Davydd Greenwood, guarda caso proprio uno dei maggiori critici della corporatization dell’educazione superiore nel mondo:
Il personale accademico spesso si comporta in modo “autistico”, perché non pensa davvero alle conseguenze delle proprie azioni, anche quando queste ultime sono destinate a portarlo in una situazione estremamente difficile in poco tempo. Questo si rivela quando gli accademici chiedono finanziamenti dalla società senza riconoscere che, in cambio, la società ha il diritto di ritenerli responsabili di come essi utilizzano queste risorse. […] Questo modo di concepirsi però finirà per non funzionare. Il personale accademico deve necessariamente negoziare con la società nel suo complesso per quale contributo, e a quali condizioni, gli deve essere chiesto conto.