Potrebbe clamorosamente accadere in Libia ciò che non si è verificato in Egitto: i liberali vincono pur dopo una primavera molto più cruenta, senza un’organizzazione partitica e lo zoccolo duro di una componente laica e moderata, uscita con le ossa rotte dalle lezioni del dopo-Mubarak, schiacciata fra militari e islamici.
Le immagini di una guerra senza quartiere fra fideisti pro-Gheddafi ed i ribelli, della storica guida della Jamahiriya trucidata dal suo stesso popolo, perfino le voci di analisti che avvisavano come la Libia fosse diversa dalla Tunisia e dall’Egitto sembrano perdere un po’ del significato oscuro e pessimista sui destini dello stato nordafricano.
I liberali laici dell’Alleanza per le Forze Nazionali dell’ex primo ministro di transizione Mahmoud Jibril hanno vinto in modo schiacciante nelle città principali Tripoli e Bengasi (rispettivamente con l’80% ed il 60%), grazie alla grande influenza dei giovani e delle donne ed a riconoscerlo sono proprio i grandi rivali del partito Giustizia e Costruzione, i Fratelli Musulmani libici guidati da Mohammed Sewan che con Al Watan costituiranno la colonia islamica nel Congresso Libico. Perfino a Bani Walid città storicamente legata a Gheddafi i signori locali hanno appoggiato Jibril mentre uniche eccezioni restano Misurata (la città della grande battaglia finale fra lealisti ed oppositori) e Sirte dove i Fratelli Musulmani si sarebbero imposti di misura.
È troppo presto per dire se la vittoria laica sarà completa, visto che solo 80 dei 200 seggi del Congresso sono assegnati ai partiti, mentre i restanti 120 spettano ai candidati indipendenti (dove però la rappresentanza laica è ugualmente corposa) ed anche perché resta la grande incognita del Sud del paese, gestito da signori tribali e vicino al Sudan dove le simpatie per Gheddafi e per gli islamici radicali giocano ancora un ruolo determinante.
In un paese comunque devastato dalla guerra civile, isolato dalla comunità internazionale, le elezioni per il Congresso Nazionale hanno coinvolto con insolito entusiasmo 2,7 milioni di libici, 2501 candidati indipendenti e 1206 candidati di 142 partiti politici, con una partecipazione inattesa che ha raggiunto il 65% degli aventi diritto e la parola più diffusa nei pochi notiziari libici per accompagnare queste elezioni, al di là delle ovvie cronache di violenza, è stata: «festa»
Non tradisca la parola “liberale”, perché quelli libici non sono neanche lontanamente paragonabili a quelli mediorientali, ma neppure a quelli egiziani e lo stesso Jibril non ha fatto mistero di voler comunque adottare la Sharia come base per la legislazione principale e di voler avviare rapporti con l’Iran ed altri paesi arabi non allineati, oltre alla stagione dei processi che si prevede ancora dura e senza perdono.
Intorno a lui però ci sono anche persone illuminate, come il segretario del suo partito Faisal Krekshi, esperto in materie economiche ed attento osservatore del mondo, il quale ha già detto che senza aperture internazionali il paese non potrà avere un futuro ed ha parlato di un Piano Marshall, di una grande ripartenza dalle risorse energetiche principali nel paese e di un paese più giusto per giovani e donne, frasi che pesano in uno scenario di ampie violazioni dei diritti umani.
In questi giorni di raro entusiasmo ed in attesa dei risultati definitivi, Jibril parla già da premier, auspicando un governo di unità nazionale, una nuova Costituzione e sognando già un ruolo da presidente, mentre l’assenza di un esercito forte, la frammentazione politica, che pure erano indicati da tutti come i lati deboli della Libia e la mancanza di rivalse islamiche, già rappresentate da Gheddafi con sin troppo fanatismo, potrebbero configurare uno scenario perfino migliore del vicino Egitto dove si addensano ombre di nuovi conflitti.