A mente freddaLa qualità di una classe dirigente si prevede da quella dei suoi insegnanti. Quindi, prepariamoci al peggio?

In questi giorni ho cominciato a lavorare (con i ritmi lenti imposti dalla mia timidezza nei confronti dell'inglese accademico) a un articolo per una rivista americana su alcune conseguenze di lung...

In questi giorni ho cominciato a lavorare (con i ritmi lenti imposti dalla mia timidezza nei confronti dell’inglese accademico) a un articolo per una rivista americana su alcune conseguenze di lungo periodo della riforma Gentile del 1923. “La più fascista delle riforme”, l’aveva definita Mussolini per darsi un tono, ma non è del tutto vero, non certo perché Giovanni Gentile non fosse fascista (era “fiero di esserlo” anche nel 1943-44), ma più che altro perché gran parte dei suoi elementi costitutivi riprendevano spunti di discussioni precedenti assai frequenti nel dibattito culturale ed educativo dell’Italia liberale, che avevano avuto origine già poco dopo la legge Casati del 1859. Del resto, proprio il suo radicamento in progetti e problemi propri dei decenni precedenti agli anni Venti rappresenta il punto più debole di tutta la proposta gentiliana, per così tanti aspetti ancorata a un passato che ormai ci si era lasciati dietro le spalle, anacronistica e inadeguata a una società in via di sviluppo. Il precoce collo di bottiglia di un accesso elitario all’università quando l’istruzione superiore avrebbe dovuto ampliare le proprie basi sociali per sostenere la crescita del tessuto sociale; il fondamento dell’istruzione professionalizzante e impiegatizia nell’ambiente spesso chiuso e provinciale delle scuole secondarie, senza apertura universitaria; le barriere di merito che, applicate su base generale, troppo spesso rischiavano di diventare barriere di classe: sono tutte questioni che o sarebbero state modificate profondamente con i “ritocchi” degli anni Venti e Trenta, o, se mantenute, avrebbero nei decenni successivi rappresentato un significativo freno all’adeguamento della scuola italiana alla società di massa, con effetti di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze.

Eppure, su un aspetto la riforma Gentile avrà sempre qualcosa da insegnarci: nei suoi gangli fondamentali, si fondava su un personale docente di qualità. I professori della robusta rete dei licei governativi, così come quelli degli istituti tecnici dei maggiori centri, erano alcuni dei laureati migliori, che dopo la laurea avevano usufruito delle borse di formazione per l’estero, avevano sviluppato esperienze di studio e ricerca negli ambienti più stimolanti e avanzati, e si sistemavano nei ruoli della secondaria con la consapevolezza che, attraverso il meccanismo delle libere docenze, il passaggio all’università era sempre possibile, spesso con un certo interscambio tra lavoro nei licei e primi incarichi negli atenei. Questo corpo docente, nella scuola secondaria e nell’ambito accademico, formò la generazione nata tra il 1910 e il 1925, quella della classe dirigenziale politica, economica e amministrativa della ricostruzione e del miracolo economico. Si trattava di una generazione che sicuramente, sulla base di quanto sappiamo oggi, ha commesso degli errori, ma che ha avuto il merito di inserire l’Italia nei circuiti diplomatici ed economici del mondo occidentale in una posizione di primaria importanza, che ha guidato una crescita economica senza pari secondo le idee teoriche e operative più aggiornate sul piano internazionale, che ha consentito al sistema istituzionale e amministrativo italiano, oltreché ai nostri apparati produttivi, di avere standard adeguati a quelli dei paesi più avanzati.

Per una strana e deprimente combinazione, contemporaneamente a ciò stanno avendo luogo le procedure di selezione per i futuri doncenti della scuola secondaria e dell’università. Dai loro esiti dipenderà, in gran parte, la qualità della società del futuro, perché riforme d’insieme e programmi saranno sì importanti, ma l’insegnamento è fondato su un rapporto diretto, che si costruisce giorno per giorno in classe, e che dipende moltissimo da chi dovrà gestire nei fatti e concretamente la relazione con i discenti. Per entrambi i livelli di istruzione, però, le procedure che si stanno mettendo in campo per assegnare le abilitazioni (e quindi per restringere il campo dei possibili insegnanti) non sembrano promettere nulla di buono.

Per quanto riguarda i test per l’accesso al Tirocinio formativo attivo per le secondarie, già un articolo ha riassunto a grandi linee le possibili perplessità su errori, omissioni, risultati numericamente ridicoli. Io non mi sono potuto iscrivere alla prova per Storia e Filosofia (che deve ancora avere luogo) perché al momento della verità ero negli USA, ma per curiosità ho guardato il questionario per Filosofia, Psicologia e Scienze dell’educazione, settore su cui sono più ferrato, e credo di poter individuare alcuni elementi di criticità anche a monte di quelli, di natura strettamente organizzativa, che sono stati fatti notare.

In particolare, io non ho niente contro i test “a crocette”, ad Harvard ne propinavo uno a settimana ai miei studenti, ma appunto questo tipo di verifica può avere senso con tutta una serie di prerequisiti. Per esempio, funziona nell’ambito di un programma da verificare ristretto e assolutamente chiaro a chi ha preparato il test e a chi lo fa, con la possibilità di condividere pienamente la gerarchia delle rilevanze (2-3 libri da leggere e conoscere in profondità in alcuni temi-cardine e tesi centrali, per dire). Inoltre, un test del genere può aver senso appunto in una serie di diverse sessioni, in cui l’effetto casuale vada ad annullarsi, e in cui si formi una media dei risultati sufficientemente eloquente e controllabile. Può essere, certo, la verifica finale di un intero corso, ma appunto deve essere amministrato da chi ha gestito l’insegnamento delle materie da sapere nel corso del tempo, in modo che anche in questo caso ci sia una consonanza tra il programma di preparazione e quello di verifica. In generale, i test singoli a risposta chiusa non sono mai prove senza appello uniche e prive di ulteriori valutazioni della preparazione più dirette e meno “fredde”.

In questo caso si sono ripetuti molti dei limiti che avevo già riscontrato nell’uso che in Italia facciamo troppo spesso del numero chiuso. Sono pienamente d’accordo sul fatto che un tirocinio possa essere organizzato solo selezionando un numero preciso di partecipanti, adeguato alle possibilità logistiche di ospitarli: qui però si è ancora una volta usata la prova d’ingresso soltanto per evitare di scegliere. Si è messa in entrata la verifica che generalmente si dovrebbe usare in uscita, alla fine di un percorso di formazione condiviso, e il tutto senza nemmeno che i partecipanti avessero la possibilità di condividere tra loro un programma di formazione chiaro e uniforme in tutte le sedi in cui si sono formati. Perché, ricordiamolo tra l’altro, hanno partecipato a questo esame laureati di tre generazioni diverse, nel caso specifico della classe che ho esaminato usciti da corsi di laurea in cui da tempo sono stati aboliti quei percorsi istituzionali che una prova di ammissione del genere avrebbe richiesto quantomeno di riattivare come programmi di massima per la preparazione. Invece tutto è stato improvvisato, e a giudicare da come il ministero ha operato la “celebrazione” del rituale dell’esame di ammissione, tanto per dare un segnale di riaccensione almeno teorico delle procedure di reclutamento, è stato assai più importante del buon esito di un processo di selezione che, magari è il caso di rammentarlo, non dovrebbe distribuire idoneità a caso ma far emergere attraverso scelta motivata il personale più adeguato ai ruoli messi in palio.

Sul versante università, invece, il 27 luglio entrerà in funzione la procedura di abilitazione ai ruoli di professore associato e ordinario. Con la riforma del 2010, si tratta del primo, indispensabile passo per essere assunti come docenti presso gli atenei. In realtà, è abbastanza inutile che mi cimenti in un’analisi dettagliata di tutte le ragioni per cui il sistema che è venuto fuori genererà probabilmente disastri. Poco fa, infatti, Antonio Banfi ha prodotto una delle sue lucide analisi sulla questione, che consiglio caldamente per chi voglia saperne di più. Qui mi limito a riassumere un paio di questioni, che lasciano da parte i dettagli tecnici sulle scelte arbitrarie per gli indici e per la quantificazione del valore di riviste e case editrici.

Assumiamo dunque che questa procedura, sicuramente tecnicamente malfatta e che presterà il fianco a interminabili ricorsi, e basata su dati sulla cui raccolta nemmeno il ministero mette la mano sul fuoco, per miracolo finisca liscia. In primo luogo, la selezione per gli idonei si compone di due passaggi: una quantitativa, perché potrà ottenere l’idoneità per diventare associato solo chi, attraverso il punteggio ottenuto con la somma dei valori delle sue pubblicazioni per collocazione editoriale e impact factor, si colloca “oltre la mediana degli associati del settore concorsuale di riferimento. e lo stesso vale per i professori ordinari”; una invece qualitativa, perché tra chi ha i “numeri” (letteralmente) una commissione potrà escludere chi, dalla lettura diretta dei titoli presentati, non risulta adeguato a una posizione universitaria.

Lascio da parte il fatto che queste richieste così selettive vengono curiosamente fatte a chi ancora non è stato assunto, mentre il posto fisso della metà degli associati italiani già in ruolo, che per definizione è sotto la mediana degli associati, non viene minimamente messo in discussione. Qui interessa notare che quest’ultimo passaggio qualitativo difficilmente avrà particolari conseguenze, perché l’esclusione di qualcuno che ha pubblicato molta carta è pesante, significa in sostanza riconoscerne l’indegnità, crearsi nemici nell’ambiente, e forse spopolare il proprio settore disciplinare (che, visti i particolari meccanismi del sistema concorsuale italiano, rappresenta l’ambiente in cui ogni docente può esercitare il proprio potere contrattuale). Quindi, il tutto prevedibilmente si risolverà in una scrematura di natura puramente quantitativa.

E siccome la differenza in punteggio tra un prodotto scientifico scadente e uno buono c’è, ma non è elevatissima, potrà piazzarsi meglio chi raccoglierà qualche appunto in fretta e furia e farà stampare roba (possibilmente più di un titolo) da un editore compiacente o su una rivista locale, rispetto a chi ha in corso un lavoro di ricerca serio, che richiede tempo per essere affinato e messo a punto, e intende presentarlo all’estero o su testate più ambiziose quando il piano di lavoro è completato.

Naturalmente, il ricercatore serio potrebbe scegliere di partecipare all’assegnazione di idoneità dell’anno prossimo, ma occorre anche tenere presente il fatto che in questa tornata, col filtro un po’ malconcio che ho cercato di riassumere, si prevedono almeno 6000 idonei, un numero che difficilmente l’università riuscirà a metabolizzare nei prossimi anni. Quindi, è possibile che il ministero trovi come ha già fatto in passato il cavillo giuridico-amministrativo per non fare successive abilitazioni fino all’esaurimento delle scorte di assumibili.

Ancora una volta, in conclusione, ci troviamo di fronte a un processo che il ministero considerava molto più importante far partire in qualche modo, per ragioni d’immagine e “simboliche” come risposta alla richiesta di certezze di un numero crescente di precari che voleva ricevere almeno una prospettiva di carriera, che non preparare così da ottenere una selezione il più possibile attendibile. Ma forse è proprio questa una delle cause principali della situazione in cui versa il paese: l’importante, nelle selezioni concorsuali, nel reclutamento e nella gestione delle risorse pubbliche materiali e immateriali, è rispettare le formalità e/o dare l’impressione che il processo arrivi fino in fondo sfornando qualche risultato; dei risultati effettivi di questi procedimenti, della loro qualità, degli effetti sociali di queste scelte e della possibilità di individuare e correggere errori, nessuno si interessa, perché tutto questo richiederebbe che qualcuno, chiaramente identificabile, ne fosse responsabile e ne pagasse eventualmente le conseguenze. Nel 1923 qualcuno, con tutte le rigidità di una concezione pedagogica antuquata, e con tutte le forzature di una scelta ideologica che anche molte persone vicine a lui ritenevano per tanti versi inconcepibile e incomprensibile, aveva deciso di metterci la faccia, come avrebbe fatto fino all’ultimo.

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