A mente freddaNorberto Bobbio su pace, politica e cultura: una riflessione ancora attuale

A quanto sembra di capire, la situazione siriana sembra volgere al brutto, con la necessità ormai non più rinviabile di un intervento di qualche tipo che sta però creando profonde fratture nella co...

A quanto sembra di capire, la situazione siriana sembra volgere al brutto, con la necessità ormai non più rinviabile di un intervento di qualche tipo che sta però creando profonde fratture nella comunità internazionale. Si possono prevedere ulteriori passaggi in sede ONU, ma se la situazione non si stabilizzerà da qualche parte si potrebbe pensare a un intervento in autonomia che superi lo stallo e che imprima alla crisi interna del paese una direzione “libica”.

Lascio a chi ne sa più di me il difficile compito di trarre conclusioni sulle possibili conseguenze della questione sul piano globale. Mi limito a guardare a casa nostra, e ad aspettarmi, visti i precedenti anche di un anno fa in occasione appunto della guerra civile libica, che le parole di fuoco che molti riservano ora al carnefice Assad mutino da un giorno all’altro il loro obiettivo polemico, trovandosi ad essere scagliate contro chi andrà a cercare di metterlo in condizione di non nuocere (a dire il vero, alle ali estreme del dibattito politico-culturale già ci si sta attrezzando in tal senso, ma si tratta ancora di voci prive di seguito e di qualsivoglia autorevolezza agli occhi dell’opinione pubblica).

Perché è inutile: il discorso sulla pace e sulla guerra in Italia vive ancora di aporie che risalgono ai primordi dello sviluppo del tema nel dibattito politico repubblicano, a quando, tra il 1949 e i primi anni del decennio successivo, i partiti della sinistra marxista avevano strutturato una campagna popolare di opposizione al Patto atlantico, alla corsa agli armamenti atomici e all’intervento straniero in Corea in cui il rifiuto assoluto, emotivo e prerazionale della violenza bellica (rafforzato ulteriormente dai recentissimi ricordi personali del pubblico) si fondeva e si confondeva con l’idea marxista-leninista per cui la guerra fosse invariabilmente originata dagli sviluppi del modo di produzione capitalistico, e fosse “guerrafondaio” chiunque li difendesse. L’enorme successo della campagna, che andava a toccare i nervi scoperti dell’antimilitarismo e del più o meno evidente anticapitalismo di tanta parte della cultura cattolica, e che quindi avrebbe permesso a comunisti e socialisti di recuperare un dialogo con vasti settori sociali dopo la ritirata seguita alla sconfitta del 1948, si accompagnava e anzi per certi versi era supportato da una povertà teorica della definizione di pace e guerra, con cui ora facciamo i conti. Questo tipo di discorso pacifista si è infatti mostrato ben più duraturo ed efficace delle agenzie politiche e culturali che lo hanno prodotto, e sicuramente ha rappresentato un importante veicolo di sprovincializzazione dell’opinione pubblica italiana che attraverso esso ha imparato a guardare fuori dai suoi confini; tuttavia, esso rappresenta oggi un ostacolo alla comprensione del mondo, una rassicurante ma fuorviante semplificazione a cui non si riesce a rinunciare.

Aveva già capito tutto questo un osservatore d’eccezione della cultura politica dell’Italia repubblicana, Norberto Bobbio, il quale nel 1952, a seguito di un importante intervento di Stalin a sostegno di quel movimento internazionale dei Partigiani della pace di cui comunisti e socialisti italiani erano magna pars, intervenne con una lucidissima serie di obiezioni che ritengo opportuno riportare, sperando che possano aiutare una riflessione più articolata su un modo di guardare agli eventi internazionali meno “naturale” e più “costruito” di quanto molti pensino:

La pace è un fine altamente desiderabile per l’uomo, m anon è detto che sia, in senso assoluto, il fine ultimo. È un fine ultimo soltanto per chi ritiene che la vita sia il bene supremo. […] Se poniamo dei beni superiori alla vita, come, per esempio, la libertà e la giustizia, anche la pace cessa di essere desiderabile in modo eminente. […] Il mio atteggiamento di fronte ai fautori di pace dipende dal posto che io attribuisco alla pace nella mia gerarchia di valori. Per esempio: mi trovo attualmente in una situazione economica che mi permette di mantenere decorosamente la mia famiglia, e lo stato di cui son cittadino mi concede in modo sufficiente quelle libertà personali che io ritengo necessarie per la felicità della vita. È presumibile che in tali condizioni io sia sensibile alla propaganda di pace […]. Ma se sono schiavo e sfruttato, le cose cambiano: di fronte al non raggungimento di fini desiderabili, come la libertà e la giustizia, è presumibile che il problema della pace passi in seconda linea. La pace dunque mira generalmente a conservare uno status quo particolarmente soddisfacente. La pace è essenzialmente conservatrice. […]

Sorge [quindi] il legittimo sospetto che non possa essere sinceramente pacifista chi non ha interesse a mantenere lo status quo. Ora accade che gli attuali Partigiani della Pace appartengano per lo più a movimenti politici di sinistra, vale a dire a movimento che non hanno interesse a mantenere lo status quo e si propongono di mutarlo, non importa se per il mutamento si debba fare appello alla violenza […]. Può infatti sembrare che vi sia qualcosa di ambiguo in un movimento politico pacifista che viene promosso e sostenuto dai seguaci di note teorie rivoluzionarie, cioè di teorie che pongono l’ideale della giustizia al di sopra di quello della pace. […]

I Partigiani della Pace non costituiscono un movimento pacifista in senso generico. […] Essi non sono fautori di pace a tutti i costi, della pace come fine ultimo, ma di una determinata pace in un determinato momento storico. […] Perché essi ritengono che sia un bene che regni la pace oggi tra i due blocchi? Perché la guerra minaccerebbe di distruggere le conquiste sociali raggiunte nei paesi del socialismo. […]

La pace […] è una cosa buona, anzi ottima, ma non rappresenta il fine supremo, […] che […] è la distruzione dell’imperialismo. […]

Curiosi pacieri i Partigiani della Pace. Essi si offrono per ristabilire la pace tra i contendenti. a dichiarano sin dall’inizio e senza alcuna reticenza che dei due contendenti uno ha ragione e l’altro ha torto, che la pace si può salvare soltanto mettendosi da una parte sola. Essi si presentano come partigiani della pace, ma si presentano pure nello stesso tempo come partenti, amici, aventi rapporti d’interesse con una delle due parti. La norma sulla ricusazione dei giudici sospetti di parzialità non vale per loro. Ma proprio perché non vale, ecco che ne scapita l’efficacia del mvimento come movimento di pacificazione. […]

[Per i Partigiani della Pace] l’azione di pace, che è, come si è detto sin dal principio, essenzialmente conservatrice, deve trasformarsi in un’azione rivoluzionaria […]: vale a dire – non bisogna aver paura delle parole – in un’azione di guerra.

Norberto Bobbio, Pace e propaganda di pace (1952), ora in Id., Politica e cultura, Torino, Einaudi, 1955, pp. 72-83.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter