L’agente MormoraSpesso il bene di vivere ho incontrato

C’è che questa storia la racconto uguale, senza neanche sapere come andrà a finire. Stavo pensando che una grande conquista dei tempi moderni sarebbe l’abolizione degli aggettivi possessivi. Questa...

C’è che questa storia la racconto uguale, senza neanche sapere come andrà a finire. Stavo pensando che una grande conquista dei tempi moderni sarebbe l’abolizione degli aggettivi possessivi. Questa storia non è affatto mia: la sto rubando. E questa storia non è più sua: ve la sta regalando.

Lo sceriffo panzone annoda su di sé la cravatta buona che la madre di Michael gli ha portato per l’udienza. Perché, si capisce, da ammanettati è tutto assai complicato, figuratevi un nodo. Sua sorella scorge la scena attraverso una porta rimasta aperta. Si commuove – ha occhi di inquietudine azzurra – e sono lacrime di civiltà. Vietate agli avvocati: ma utili, necessarie, nobili. Di là, c’è una giuria popolare di quattordici cittadini del Commonwealth della Pennsylvania che aspettano un innocente per decidere circa la sua colpevolezza. Sono stati selezionati tra una platea di cinquanta. È un sistema intelligente, criticabile, un casting puro in cui decidono il giudice, l’accusa e la difesa. Niente privacy, domande intrusive: entri dentro decine di storie in punta di piedi. Almeno sette volte il giudice glielo ripeterà: usate tutta la giustizia che vi capita tra le mani per stabilire se il tizio che in questo blog chiameremo Michael è responsabile dei delitti per cui l’abbiamo convocato qui oggi. Nella sala accanto, che poi non è una sala ma un corridoio, ci sono piastrelle lucide. Ceramiche perfette attorno ad un vetro che separa lui in manette e noi, di qui: nel regno della libertà, che gli consigliamo di restare sereno e di raccontare tutto quello che sa. E Michael se la cava alla grande. Un figurone, avreste dovuto vederlo: il pubblico ministero ha provato a metterlo in difficoltà, ad insinuare una contraddizione. Ma lui niente, fissava i giurati uno per uno e raccontava una notte storta. È accusato di aggressione aggravata a due poliziotti che lo controllavano per strada e di falsa testimonianza circa la propria identità. A suo dire, sono stati loro ad aggredirlo mentre cercava di capire perché mai ce l’avessero con lui. Un trentenne di novanta chili a bordo di una bici rosa e viola che corre verso un market aperto tutta la notte per comprare sigarette e pane. Forse ha provato a scappare, intontito inebetito impaurito.

L’eccesso di zelo, se ha un volto, è quello di Michael – tumefatto, livido, sfasciato. Impresso nella foto “per uso interno” che gli hanno scattato al rientro dall’ospedale. E che ora, riprodotta in poche copie, gira tra le mani dei giurati. Pochi attimi, ognuno guarda l’occhio nero mentre è tra le mani del vicino e, quando il foglio gli arriva tra le mani, sa già tutto delle ferite. Sbircia solo. I due poliziotti quella notte neanche un graffio, e son loro a dirlo. «Non ci siamo fatti nulla, sì: c’è stata una colluttazione ma noi le abbiamo date, cari giurati». La mamma di Michael passa al banco dei testimoni e piange, dannazione: le avevamo detto di restare serena. Si somigliano troppo ed un filo emotivo li tiene legati. Se salta la corrente della lucidità da una parte, il black out si propaga anche da questa. C’è un’immagine che, ancora, dà il senso della civiltà giuridica. E fischia nelle orecchie, tant’è contraddittoria agli occhi di chi – lesto – obietta che la pellicola da cui questi frammenti sono tratti è girata in una Nazione che ammette, seppur a macchia di leopardo, la pena capitale. C’è Michael al banco degli imputati. Cinque metri da percorrere per arrivare a quello degli interrogati. Senza manette: ovvio, davanti alla giustizia siamo tutti liberi. C’è un istante imbarazzato in cui sembra debba avvenire qualcosa, ma nessuno capisce cosa. Allora il cancelliere fa un cenno al giudice. E quello intuisce. Si rivolge ai giurati, con mille accortezze ché ‘sti signori son tre giorni che son chiusi qui dalle nove del mattino per nove dollari ed un panino. Gli fa: «Magari ci prendiamo tutti una boccata d’aria». Hai voglia, anche solo il tempo di mandare un sms, visto che i cellulari sono requisiti all’ingresso. In fila lasciano l’aula. E solo quando la porta si è chiusa dietro l’ultimo dei girati – una ragazzetta nera che è stata presa all’università di Penn – solo allora: lo sceriffo si alza e scorta Michael fino alla nuova destinazione. Poi si risiede lontano, come se dietro il sipario ci fosse stato un cambio di scenografia e al pubblico nulla bisogna far sapere.

Il fatto che Michael sia detenuto da un anno “in attesa di giudizio” non deve per nessuna ragione al mondo influenzare il parere della giuria: non fatevi ingannare dalle apparenze. Che, per dire, dei cinquanta candidati a far da giurato in questo processo, tutto sommato semplice semplice, son stati scartati tutti quelli che han risposto “Sì” ad una domanda banale su un questionario che han dovuto compilare con attenzione. «Sei più incline a dar retta ad un poliziotto, per il solo fatto che lui indossa una divisa?». E son stati scartati tanto i parenti di poliziotti, quanto chiunque potesse essere incazzato con gli sbirri. E ancora il giudice lo ripeterà fino allo stremo: il servizio che voi state rendendo alla vostra comunità è encominabile, ma sappiate che – pure – è un dovere della vostra cittadinanza. Una grande responsabilità vi state assumendo, non fatevi fregare dalle domande delle parti, anch’io son qui a dirigere il traffico: conta poco quello che dico. Fottetevene delle insinuazioni: ci sono delle prove, dei testimoni e delle regole di legge che vi racconterò fra poco. Usateli e costruite una sentenza, non giocateci: non li abbiam recuperati dallo scatolone fabbricone per farvi divertire. Sono doveri. Capite? Non è un abbecedario di etica o correttezza. È una mossa semplice, innocua. Forse è un rito, officiato con implicita assuefazione. Ma se prendete questi due istanti, come fiocchi di neve imbizzarriti in quelle palle che capovolgi e regali alla nonna al ritorno dalla gita, se li agitate ancora e li ricomponete con grazia: vi sembra quasi che le regole per far funzionare un Paese possono anche stare nel nodo di una cravatta fiorata da abbinare ad una camicia pistacchio o nell’incrocio di sguardi tra un cancelliere riccioluto ed un giudice criminale. È una lezione, a margine dei compendi di procedura non la si trova. Ed è giusto così, lo dice pure l’accusa: oggi usate il buonsenso, cittadini, e non farete male a nessuno.

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