Keynes BlogSuper Mario Draghi e i suoi poteri (poco super)

Basta una dichiarazione del banchiere centrale per far precipitare gli spread. Ma i suoi poteri e l'effettiva determinazione sono limitati. L'uscita dall'Euro rimane sul tappeto e può essere l'occ...

Basta una dichiarazione del banchiere centrale per far precipitare gli spread. Ma i suoi poteri e l’effettiva determinazione sono limitati. L’uscita dall’Euro rimane sul tappeto e può essere l’occasione per l’inizio di un percorso nuovo di cui l’Italia sarebbe chiamata a dare il meglio di sé

Le scorse settimane, caratterizzate dall’elevata tensione sui titoli di stato italiani e spagnoli, sono state percorse da una vera tempesta di idee sulle cause dell’innalzarsi dello spread. Ha dato il “la” Mario Monti, sostenendo inizialmente che l’innalzarsi dello spread fosse colpa del presidente di Confindustria Squinzi, il quale si era permesso di dire che l’austerità non funziona e che il paese sta soffrendo per la “cura” dello stesso Monti. Poi è stata la volta delle “tensioni politiche”, vale a dire il ritorno in campo dell’ex premier Silvio Berlusconi.

L’apice dell’assurdità è stato raggiunto da Angelo Panebianco, editorialista del Corriere della Sera, secondo il quale i mercati sarebbero preoccupati (con mesi di anticipo) per la possibilità che Vendola o addirittura Di Pietro facciano parte della coalizione di governo prossimo venturo. Più o meno quanto si sosteneva di Hollande, che però una volta al governo ha visto assottigliarsi lo spread tra titoli francesi e tedeschi. Seguendo la logica di Panebianco fino in fondo, assumendo cioè che il grosso dello spread dipenda dalle aspettative dei “mercati” sul colore politico dei governi, dovremmo concludere che le borse sono piene zeppe di socialisti. Paradossi di ragionamento fondato su premesse errate.

Il “dagli all’untore” serve ovviamente a coprire la realtà e ad usare un numero, lo spread, come arma politica, mentre è ormai evidente che la speculazione finanziaria sguazza in una situazione deteriorata anche dall’austerità dei governi. Chi pure speculatore non è, infatti, non può non prendere atto che Spagna e Italia chiuderanno il 2012 con un tasso di crescita negativo e pertanto difficilmente possono essere considerati buoni pagatori futuri.

Negli ultimi due giorni però è accaduto in effetti qualcosa di nuovo. Moody’s ha spiegato che l’eventuale uscita della Grecia dall’euro comporterebbe la perdita della tripla A per il debito pubblico tedesco. L’agenzia ha cioè sostenuto, con ben due anni di ritardo rispetto all’inizio della crisi dei debiti, che se i greci fanno default, a rimetterci sono anche coloro che ai greci hanno prestato i soldi, vale a dire le banche tedesche. E se all’uscita della Grecia si aggiungesse quella di Italia e Spagna, le banche tedesche potrebbero dover chiedere il salvataggio al governo, il cui debito diverrebbe difficilmente gestibile, come quello di Spagna e Italia. Insomma, sembra avvertire Moody’s, se la signora Merkel insiste a non mettere in comune il debito dei paesi dell’eurozona, esso potrebbe alla fine diventare debito pubblico tedesco, nonostante tutto.

La seconda cosa nuova è stata l’apertura della banca centrale austriaca alla possibilità di concedere al fondo salva-stati la licenza bancaria, ossia poter accedere ai prestiti (potenzialmente illimitati) della BCE. Infine ieri Mario Draghi, presidente proprio della BCE, ha – con una chiarezza sinora a lui sconosciuta – sostenuto che la BCE farà tutto quanto in suo potere per salvare l’euro. Draghi ha anche spiegato che la sopravvivenza della moneta unica è un dovere per la banca centrale che presiede mentre la crisi sta rendendo inefficaci le sue politiche monetarie. Questa dichiarazione, da sola, ha fatto precipitare lo spread Spagna/Germania di 100 punti mentre quello Italia/Germania è passato in tre giorni da 537 ai 460 odierni. Si noti che lo stesso giorno il presidente di Confindustria ha affermato che l’Italia non ha possibilità di chiudere l’anno con un PIL positivo. Il potere di Squinzi sullo spread appare quindi piuttosto impalpabile.

Ma c’è un “ma” che gli investitori hanno ben presente. La BCE, per statuto, non è un prestatore di ultima istanza per gli stati, non può monetizzare i debiti pubblici e in ogni caso l’eventualità di usare il fondo salva-stati come una sorta di prestanome della BCE trova ancora l’opposizione della Cancelliera Merkel. QUel “tutto” che Draghi promette non è poi tantissimo. Insomma, la BCE non ha un “bazooka” (per usare la metafora di Christian Noyer, governatore della Banca centrale francese) ma solo una pistola caricata a salve. Anche l’eventualità di un nuovo Ltro (ossia prestiti alle banche per comprare titoli di stato e abbassare quindi gli spread) sarebbe controproducente, come ha sottolineato a suo tempo Paul De Grauwe. Già ora, grazie ai precedenti Ltro, gli istituti di credito sono pieni zeppi di titoli di stato, potenzialmente spazzatura.

Si è creato così un circolo perverso, più che vizioso: gli Stati salvano le banche con i soldi dei cittadini, vedono i loro debiti pubblici schizzare in alto, impongono austerità, il timido recupero diventa di nuovo recessione, la credibilità cala, la speculazione opera incontrastata, gli interessi sui titoli salgono, la BCE presta soldi alle banche, le banche comprano titoli di debito pubblico degli Stati, dopo poco la tensione sui mercati si rinvigorisce, i titoli perdono velocemente valore e in prospettiva divengono “carta straccia”, così le banche si trovano esposte più di prima e gli Stati diventano potenzialmente insolventi dopo aver costretto i cittadini a stringere la cinghia oltre il limite della sopportazione (e, nel caso della Grecia, oltre il limite dell’umanità). Sergio Cesaratto l’ha giustamente definito “un pessimo surrogato dell’intervento diretto della BCE nel sostegno agli stati perché alla lunga il giochetto rende gli stati insolventi.” Noi aggiungiamo che è come dare ad un malato di ulcera un’aspirina per abbassare la febbre ma con l’effetto fatale di bucare inesorabilmente lo stomaco.

I banchieri londinesi a cui Draghi ha parlato e gli investitori ovunque nel mondo sanno bene che le parole non bastano. Gli spread possono tornare a crescere rapidamente senza misure concrete e una credibile determinazione. Le prossime giornate ci diranno cosa ha precisamente in mente Draghi e quali risposte verranno dal governo tedesco e dai suoi alleati. Per adesso i poteri di Super Mario sono ben poco super. E del resto neanche il banchiere centrale ha finora dimostrato risolutezza chiedendone di maggiori, cioè chiedendo la riforma della BCE sul modello delle altre banche centrali.

Infine, alcune riflessioni oltre l’assillo dello spread. Anche se – ed è improbabile – si trovasse una soluzione al problema degli interessi sui debiti sovrani, la crisi sarebbe tutt’altro che risolta. Essa origina infatti dagli squilibri delle bilance dei pagamenti dell’area euro, in particolare dal fatto che in questi anni la Germania e altri paesi del “centro” hanno esportato massicciamente le eccedenze produttive verso i paesi “periferici”, i quali le hanno acquistate grazie al credito concesso dal “centro”. In tal modo le banche tedesche sono diventate creditrici e i paesi periferici sono diventati debitori, in assenza di qualsiasi meccanismo che riequilibrasse l’accumulo di debito estero. Ed è qui il nodo, come abbiamo più volte evidenziato.

Le soluzioni ci sarebbero, ma richiederebbero una presa di coscienza finora sconosciuta e una disponibilità da parte della Germania sinora inedita, con un’inversione a 180 gradi della linea sin qui adottata. Inoltre richiederebbero tempo, forse molto tempo. Richiederebbero infine fiducia reciproca tra paesi e governi, una merce davvero scarsa, se guardiamo le condizioni capestro imposte dalla Germania agli stati periferici in cambio, sostanzialmente, di poco più di nulla (come i limitati fondi salva-stati in cui gli stessi stati indebitati devono versare la loro quota).

C’è la possibilità di una inversione drastica in tempi rapidi? Realisticamente, no. Eventuali sostanziali “concessioni” tedesche sul ruolo della BCE sono improbabili, considerando la levata di scudi in Germania contro il ben meno ambizioso scudo anti-spread di Monti, pur accettato dalla Merkel. E, anche se alla fine avvenissero, sarebbero accompagnate da richieste sempre più stringenti in termini di finanze pubbliche, che ucciderebbero ogni possibilità di usare il bilancio, nazionale o europeo, in funzione espansiva. Per non parlare della possibilità di mettere in comune tra tutti i paesi dell’eurozona una parte del debito pubblico.

Sullo sfondo rimangono le proposte avanzate da Zingales e Brancaccio: il primo per un sussidio di disoccupazione europeo (i tedeschi dovrebbero di fatto pagare i disoccupati dei PIIGS: chiaramente per Berlino e la sua visione “moralistica” del debito non se ne parla); il secondo per uno standard salariale, congegnato in modo che i redditi da lavoro crescano con la produttività e nessuno possa utilizzare la svalutazione salariale per aumentare la propria competitività. “Riforme strutturali”, diverse per ispirazione: quella di Zingales di stampo social-liberista (prendere atto del problema disoccupazione, ma usarlo per evitare che i soldi vengano spesi per creare lavoro “distorcendo” il mercato; a tal scopo è un male minore dirottarli verso i consumatori disoccupati e resi passivi); quella di Brancaccio di ispirazione keynesiana (per quel che riguarda l’attenzione agli squilibri delle bilance commerciali) e kaleckiana (poiché interviene sulla distribuzione del reddito tra le classi sociali, anche nella prospettiva di ripristinare un “motore interno” della domanda e una maggiore propensione al consumo). E’ però notevole il fatto che entrambe incontrerebbero la più risoluta opposizione da parte delle classi dirigenti tedesche, preoccupate solamente di mantenere una posizione di vantaggio senza pagare alcun prezzo redistributivo tra centro e periferia, utilizzando la consolidata retorica che colpevolizza i paesi periferici.

Tra gli economisti eterodossi c’è ormai una convergenza circa la necessità, per i paesi periferici, di uscire dall’euro, che si incontra, almeno in parte, con alcune affermazioni di economisti mainstream americani. Il ragionamento di fondo è che non vi sono i margini politici e temporali per realizzare tutte quelle riforme istituzionali, e sono tante, che l’Europa richiederebbe per funzionare, anche perché esse richiederebbero, per essere efficaci, di ribaltare gli stessi trattati fondativi dell’Unione monetaria.

Ma uscire dall’Euro, sia chiaro, non è una passeggiata. Tornare alla “sovranità monetaria” significa poco o nulla se poi si fa l’errore di mantenere l’indipendenza totale della Banca centrale dal governo, stabilita con il divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro, causa prima della moltiplicazione del nostro debito pubblico. Tornare alla lira e convincere i debitori esteri in euro ad accettare la nuova valuta non sarebbe una passeggiata. Anche l’Argentina ha impiegato alcuni anni per risolvere problemi simili. A ciò si aggiunge il tema del nostro status nell’Unione europea e la necessaria uscita dal mercato unico per poter controllare la fuoriuscita di capitali e i commercio con l’estero.

Ma è proprio quest’ultimo punto, forse, quello davvero più interessante di tutti e, per certi versi, il più carico di potenzialità positive. Non perché il protezionismo sia, di per sé, una soluzione ai problemi italiani, ma perché il controllo dei movimenti dei capitali e delle merci potrebbe essere un punto di partenza per un ritorno dello Stato al ruolo di indirizzo dell’economia. Il ritorno quindi alla programmazione economica e all’intervento pubblico non solo per la ridistribuzione ma per la creazione della ricchezza. Un’inversione nel processo di privatizzazioni dovrebbe essere il primo tassello di questa strategia. “Fuori dall’euro – ha scritto Sergio Cesaratto – l’Italia dovrebbe finalmente diventare un paese maturo, in ogni sua componente”.

E se qualcuno pensa che in Italia qualsiasi cosa odori di Stato funzioni male e non crei profitto, allora si stupisca con questo dato: tra le aziende più “internazionalizzate” del mondo, le uniche due italiane sono entrambe controllate dallo Stato: Eni ed Enel. Con buona pace delle tante banalità e dei luoghi comuni, dei commentatori del Corriere della Sera, di Alesina-Giavazzi e di coloro che vedevano in Marchionne o nei “capitani coraggiosi” all’assalto di Telecom i campioni del nuovo capitalismo italiano.

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