L’interessante post pubblicato oggi sul blog di Marco Boscolo solleva un problema importante nella vita delle nostre università, riprendendo una proposta di alcuni ricercatori romani sulla possibilità di istituire un centro di ricerca di eccellenza raccogliendo il meglio delle risorse umane per la ricerca nella capitale, e snellendo le risorse per la pletorica folla di studiosi scarsamente produttivi che resterebbero nelle altre sedi, in pratica riprendendo (quantomeno su scala cittadina) il nodo della necessità di distinguere nel sistema italiano le research universities dalle teaching universities. In pratica (e in estrema sintesi, perché qui si riassumono in un unico quadro modelli ed esiti anche sensibilmente diversi), si vorrebbero differenziare le funzioni delle diverse sedi sulla base della loro qualità, concentrando i migliori elementi per lo sviluppo della ricerca in un numero relativamente piccolo di centri, di grandi dimensioni e a elevata produttività, capaci di attrarre anche capitali privati e di stabilire buone relazioni internazionali, e lasciando alle altre il compito di sviluppare la didattica sui “grandi numeri” producendo il numero congruo di laureati di buon livello nelle discipline in cui il titolo e la preparazione sono più spendibili e in cui maggiore è il fabbisogno di personale competente di livello medio (Medicina, Ingegneria, Economia, ecc.). In questo modo, tra l’altro, sembrerebbe possibile trovare una soluzione migliore dei tagli lineari alle esigenze di spending review, attraverso una riduzione delle teaching universities a un numero adeguato alle reali necessità, e finanche attraverso una depurazione dei ruoli, con il licenziamento del personale che nei fatti si è rivelato più scadente.
Giustamente, l’autore del post riallaccia questa visione agli elementi più concretamente attualizzabili del tentativo (sostanzialmente fallito) di riorganizzazione del neonato sistema universitario nazionale italiano proposto nel 1862 dall’allora ministro della Pubblica istruzione Carlo Matteucci. E in fondo anch’io trovo che una soluzione su questa strada possa finalmente portare al pettine, e quantomeno affrontare con qualche speranza di efficacia, alcuni problemi di lungo periodo della nostra vita universitaria. Quantomeno in linea di massima.
Perché, si sa, il diavolo è nei dettagli, e il rischio di peggiorare le cose è dietro l’angolo. Il rischio, ad esempio, di giustapporre i nuovi istituti di qualità ai vecchi, che per un motivo o per l’altro finirebbero per essere come al solito insopprimibili. Non si tratterebbe, del resto, di un esito nuovo. Ci sarebbero fin troppi esempi, dai vari istituti superiori alle scuole di eccellenza fiorite negli anni Novanta o giù di lì. Non tutti hanno registrato risultati cattivi, anzi molti hanno avuto buone performances di efficienza nella ricerca e nella formazione dottorale, ma in generale hanno rappresentato una nuova allocazione di risorse senza chiudere il rubinetto delle vecchie, e che nella pressione che c’è sono stati utilizzati spesso come serbatoio per nuovi posti o come rifugio con cui gli ordinari sono fuggiti dal peso didattico del 3+2. La loro funzione è troppo spesso finita per essere quella di una ulteriore fonte di spese, che non riduceva il fabbisogno degli atenei ordinari e che aveva costi non commisurati ai pur interessanti risultati.
Un rischio sarebbe anche quello di individuare i ricercatori bravi con i criteri con cui si dovrebbero individuare adesso quelli idonei, quindi con un sistema meccanico e alla lunga inefficace, che si fa per mettersi a posto la coscienza. Con le mediane e le abilitazioni che non intaccano il pregresso e che non hanno alcun fondamento nelle modalità di reclutamento che caratterizzano i sistemi di istruzione superiore nei paesi civili, non si va da nessuna parte, e una proposta di riforma dell’università non può che avere come obiettivo primario la completa sostituzione del pasticcio attuale.
In tutto questo, il rischio maggiore sarebbe quello di cozzare contro il sistema di garanzie giuridiche e di forme concorsuali che nel corso del tempo hanno “fatto giurisprudenza”, trasformando in legge e in precedente di valore giuridico un sistema di reclutamento fondato sull’equilibrio di interessi nazionali e locali e su una oggi incomprensibile e deleteria uniformità della qualità.
La soluzione secondo me si potrebbe trovare attraverso i sempre cari (non solo a me) provvedimenti di natura indiretta. Bisognerebbe lavorare, insomma, su servizi di qualità facilmente misurabile, e gradualmente fondare distribuzione di fondi e mobilità su quei criteri di massima. Ecco qualche spunto non esaustivo (e aperto a ulteriori modifiche e ulteriori specificazioni). Naturalmente, ognuno di questi punti tocca le questioni irrisolte reali della vita universitaria nel nostro paese, e quindi troverà opposizioni ben più corazzate rispetto a quelle che hanno scalfito la legislazione proposta dalla Gelmini, che sostanzialmente cambia tutto perché nulla di sostanziale cambi.
- L’intervento sui dottorati non è rinviabile. Un programma per dipartimento in tutte le università per tre studenti non è proponibile, e ce l’abbiamo solo noi. Per finanziare un programma dottorale occorrerebbe valutare alcuni elementi concreti: la qualità delle biblioteche cittadine, le effettive possibilità dei laboratori di ospitare un certo tipo di lavori, le borse di scambio, i rapporti di cotutela e di cooperazione internazionale che si possono offrire ai dottorandi (con la possibilità, per tutti gli studenti, di partecipare per almeno un semestre), la qualità internazionale del corpo docente, la validità dei programmi didattici e la partecipazione di docenti esterni, la possibilità di diverse sedi di consorziarsi per unire le forze pur mantenendo una logistica delle attività sostenibile (insomma, i consorzi tra Catania e Udine sono meno credibili di quelli tra Normale e Università di Pisa, per intenderci). In questo modo si arriverebbe a un numero di programmi dottorali ridotto, ma senza la necessità di ridurre i posti. Infatti, concentrando i fondi si potranno concentrare i posti in poli di qualità internazionale, che “produrranno” studiosi esposti alle migliori possibilità di training a livello competitivo, pronti a ricoprire ruoli di inizio carriera anche in tutte le sedi “minori” della Penisola.
- Le università che non hanno i requisiti minimi per un programma dottorale dovrebbero essere svantaggiate nell’attribuzione di fondi di ricerca pubblici, semplicemente perché è provato dai fatti che la ricerca che si fa lì dà risultati poveri. Nessuno vieterà però di mobilitare gli studiosi in esse impiegati per la partecipazione a piani e progetti messi in opera nelle università di ricerca, che secondo disponibilità potranno ospitarli per anni e semestri sabbatici, con un criterio che ricorderebbe un po’ i regional visiting programs con cui le maggiori università americane sviluppano i rapporti con i corpi docenti dei college locali. Naturalmente, in questi rapporti le relazioni personali tra docenti delle diverse sedi conteranno molto, come è giusto che sia: non è assolutamente il caso di demonizzarle, visto che sono un elemento assolutamente fondamentale nell’attività scientifica, e la necessità di mantenere una soglia minima di risultati per mantenere lo status di prima classe potrà, si spera, essere un deterrente dal clientelismo puro e semplice.
- Il sistema di reclutamento dovrebbe garantire una elevata possibilità di trasferimento da una sede all’altra, oltreché un buon grado di autonomia nei criteri di assunzione, per permettere la ricostituzione di percorsi di carriera “dal centro (per la formazione dottorale) alla periferia (per i primi stadi di ruolo) al centro (per l’eventuale affermazione in una sede di ricerca avanzata)”, che sono classici ovunque esista una certa fluidità nelle posizioni accademiche, e che caratterizzavano la vita di gran parte dei docenti italiani ancora negli anni Sessanta.
- Tutto questo dovrebbe risolversi anche con una maggiore mobilità degli studenti undergraduate, il che porrebbe tutta una serie di problemi che sono stati posti in più occasioni. Molti spunti da questo punto di vista sono convincenti e occorrerebbe tenerne conto, dalla necessità di attrezzare con i dovuti investimenti i centri di maggiore qualità di congrue strutture di ospitalità e di borse di studio a copertura pressoché totale per chi proviene da lontano, a quella di istituire sistemi di selezione adeguati per l’accesso alle diverse tipologie di ateneo. L’esempio estero rende meno interessanti altri spunti, come il paventato attentato all’uguaglianza di trattamento degli studenti ai dubbi sull’utilità delle competenze acquisibili nelle teaching universities, il cui ruolo è invece assolutamente centrale nello sviluppo di un sistema accademico di massa, adeguato alle necessità di un paese sviluppato e alla riorganizzazione delle aspettative dei suoi utenti.