Ho finito da poco di leggere il libro “Sudditi”, opera collettiva edita dall’Istituto Bruno Leoni e curata da Nicola Rossi.
Il piacere della lettura è stato almeno pari al contenuto spiacevole del libro stesso, il cui filo conduttore consiste nel presentare e analizzare tutte le situazioni in cui i cittadini italiani, invece di godere di diritti inviolabili nei confronti dello stato, sono invece sottoposti a varie forme di arbitrio, ovvero ad un rapporto di ingiustificata subalternità.
Gli ambiti in cui i cittadini si ritrovano a essere sudditi sono molteplici, e vanno dalla sfera tributaria alle questioni urbanistiche, dalla regolamentazione erratica del settore sanitario alle oscillazioni spericolate degli incentivi alle energie rinnovabili. Il punto di vista degli autori è netto: secondo un’ottica che risente molto della scuola della public choice (Brennan, Buchanan e Tullock), lo stato viene reificato o personificato in un Leviatano che inghiotte risorse e deprime gli ambiti di libertà, cambiando le regole in maniera poco prevedibile, così da deprimere la propensione ad investire nel paese, e dunque l’attività economica.
Questo è forse l’aspetto più controverso del libro stesso, in quanto contemporaneamente ne rafforza e ne indebolisce il messaggio. In che senso? L’effetto di rafforzamento è dovuto al fatto che questo stratagemma induce il lettore a focalizzarsi su un nemico ciclopico da combattere, che è persona con un nome: lo stato.
Dall’altro lato, il messaggio diventa più superficiale, in quanto si perdono di vista le componenti “microeconomiche” della macchina statale, che altro non è se non il prodotto dinamico dell’interazione tra elettori, gruppi di interesse, personale politico e burocratico. Semplificando ma non molto, questo è l’approccio metodologico che è utilizzato dalla cosiddetta political economy (alcuni esponenti: Alesina, Besley, Persson e Tabellini) per descrivere il funzionamento della macchina statale.
Nella sequenza delle idee la political economy viene dopo la public choice, ne riprende molti spunti, talora si dimentica di citarla a dovere, ma spicca per questo approccio microeconomico e per il minor peso della componente ideologica anti-statalista “senza se e senza ma”.
Si badi bene che un libro chiaramente connotato in senso liberale e antistatalista come “Sudditi” ben si intona con questo periodo storico, in cui la presenza dello stato nell’economia è percepita da molti come eccessiva, e l’idea stessa di una revisione verso il basso della spesa pubblica (la “spending review”) appare come la migliore cosa che il governo Monti possa fare oggi. Questo libro fornisce un catalogo ragionato ed argomentato delle situazioni in cui il cittadino non può che sentirsi suddito di fronte ad un intervento statale quantitativamente eccessivo, variabile nel tempo e complessivamente poco razionale.
Tanto per fare dei paragoni espliciti, Sudditi fa molto meno ridere de “La Casta” di Rizzo e Stella, ma fa riflettere di più, in quanto le lamentele anti-stataliste sono sistematicamente organizzate in capitoli succinti, precisi e scritti da persone esperte in ciascun ramo: detto in parole povere, gli aneddoti raccontati sono pochi, ma il quadro della situazione è molto più chiaro: se lo si vuole fare, ci si può indignare a ragion veduta.
Vedo infine due aspetti meno positivi, che forse sono ancora collegati alla carenza di quella prospettiva microeconomica di cui dicevo sopra.
i) Il libro contiene molte argomentazioni e molti dati di tipo descrittivo. Tuttavia in alcune parti del libro si sente la mancanza di analisi econometriche robuste, che siano capaci di indurre il lettore ad attribuire maggiore probabilità alla tesi secondo cui è l’eccessivo peso dell’intervento pubblico a produrre la conseguenza negativa X oppure Y. Ad esempio, nel capitolo di Lucia Quaglino sulla revisione al ribasso della spesa farmaceutica da parte dello stato italiano, non basta un grafico per dimostrare che ciò sia il fattore determinante della minore redditività delle imprese farmaceutiche italiane rispetto ai concorrenti europei.
ii) Leggendo il libro ho sentito la mancanza di un’analisi seria del ruolo giocato dai gruppi industriali italiani (spesso in combutta con il sindacato) nel creare, aumentare e conservare la domanda da parte dello stato dei beni e servizi prodotti da quelle imprese. Personificando il discorso, mancano l’Ernesto Rossi di “Settimo non rubare” e lo Zingales di “Salvare il capitalismo dai capitalisti”. Dal mio punto di vista di liberista di sinistra, il fatto di non avere trovato queste argomentazioni mi mostra come il libro sia molto più destrorso di come lo avrei voluto trovare prima di iniziarlo. I liberisti in Italia sono già pochi: caro Nicola Rossi, è sensato che Sudditi si rivolga quasi soltanto ai liberisti di destra?