In tempi in cui si affollano sui giornali proposte per una più efficiente gestione delle spese, e in cui una volta di più il livello di competenza nel dibattito relativo all’ottimizzazione dei nostri investimenti in università e ricerca si dimostra scarso anche tra gli addetti ai lavori, colpisce leggere la lucidità con cui nel passato si riusciva ad affrontare il problema quantomeno sul piano pubblicistico, se non su quello progettuale.
Siamo nel 1911. Tre anni prima un catastrofico tsunami aveva distrutto Messina, portando alla morte di centinaia di migliaia di persone e radendo al suolo la città, il cui tessuto sociale e istituzionale doveva essere ricostruito da zero. Anche la locale università aveva subito la stessa sorte. Numericamente assai inferiore nei numeri ai due principali atenei siciliani di Palermo e Catania, incorporata con non poche difficoltà nel sistema universitario nazionale con l’unificazione e già in precedenza minacciata di un ridimensionamento che non aveva avuto luogo (come per altri atenei) per la strenua opposizione delle comunità interessate e delle amministrazioni locali nella Sicilia nord-orientale e in Calabria, l’Università di Messina doveva ora essere ricostituita anche nel personale, visto che gran parte dei docenti e degli impiegati di ruolo aveva perso la vita nel maremoto o aveva nel frattempo trovato il modo di farsi trasferire, come assai spesso sarebbe accaduto nella storia di una sede universitaria occupata soprattutto da giovani incaricati o neoassunti alle prese con la “gavetta” e/o da studiosi invisi al potentato ministeriale di turno (dal sospetto antifascista Mario Einaudi nel 1933, all’eterodosso Ugo Spirito punito dal conservatore De Vecchi col trasferimento da quelle parti, fino al protestante Giorgio Spini negli anni di maggiore influenza democristiana sulle istituzioni accademiche). Si iniziava così il rituale dei concorsi per le numerose cattedre vacanti.
Nell’agosto del 1911, però, sulla battagliera rivista fiorentina La Voce apparve l’appello di qualcuno che conosceva bene quell’ambiente: Gaetano Salvemini, docente di Storia, si era da poco trasferito in Toscana, regione dove aveva compiuto gli studi, ma aveva insegnato proprio a Messina dal 1901 fino al terremoto, evento nel quale perdette tutta la famiglia sopravvivendo per pura fatalità. Ma nonostante la sua tragedia personale, l’autore riusciva a guardare alle conseguenze del terremoto come a un’opportunità per contribuire a quella modernizzazione sociale e professionale di cui il suo Mezzogiorno aveva disperato bisogno, e per cui da anni lottava con le armi sia della raffinata cultura che della vis polemica.
E così decise di fare questa proposta provocatoria di riforma radicale degli studi messinesi, chiedendo persino ai suoi colleghi di rifiutare di espletare le pratiche concorsuali, impedendo l’assunzione di nuovi docenti a Lettere e a Giurisprudenza. Naturalmente, la durezza del lessico deve essere inserita nel contesto di un dibattito aspro e radicale, a cui Salvemini certo non si sottraeva, e anche le soluzioni pratiche devono essere viste nella situazione generale in cui sono state proposte: Messina, si è detto, era tabula rasa, quindi certe inversioni di rotta potevano essere fatte con assoluta facilità; il basso numero di studenti e di impiegati consentiva un rapido accorpamento dei resti del vecchio ateneo a Palermo o Catania; le necessità del Sud erano profondamente diverse da quelle attuali, perché diversa era l’economia internazionale.
Colpisce però la grande lucidità con cui la proposta di investimento nella conoscenza si lega a un complessivo progetto di riforma sociale, a un insieme di obiettivi di medio-lungo periodo nella formazione del capitale umano e nella diffusione del sapere, a uno sforzo di venire incontro a ben definite necessità del tessuto comunitario interessato: il tutto un po’ diversamente da quanto avviene oggi. Colpisce, soprattutto, la facilità con cui un professore della facoltà di Lettere proponga senza particolari problemi il ridimensionamento del proprio settore di studi e della conseguente possibilità di gestire fondi e posti di insegnamento tramite concorsi, di fronte a una prospettiva strategica superiore: molti docenti oggi impegnati nella difesa corporativa delle proprie prerogative dovrebbero riflettere.
Questa democrazia potrebbe risolvere il problema dell’Università di Messina con grandissimo vantaggio della sventurata città e dell’Italia meridionale, solo che trovasse in sé la piccola energia morale necessaria a mettere a posto con un rifiuto netto e risoluto la improntitudine egoista di una mezza dozzina di avvocatucoli universitari e di politicanti semianalfabeti. Ma preferisce cedere fiaccamente alle pressioni interessate di pochi borghesucci altrettanto egoisti quanto ignoranti; e pur di evitarsi la seccatura di qualche artificiosa dimostrazione di piazza o di qualche retorica protesta parlamentare, viene meno ai suggerimenti più elementari del buon senso e del dovere.
Invece di ricostruire in fretta e furia nella vecchia Università proprio quella Facoltà di giurisprudenza che era già nel passato e sarà sempre per l’avvenire un bubbone malefico nella vita sociale della Sicilia orientale e della Calabria, e quella Facoltà di lettere, in cui ciascun alunno costava una volta e continuerà a costare anche per l’avvenire non meno di ventimila lire annue al bilancio dello Stato, queste due Facoltà occorrerebbe sopprimerle senz’altro. E sopprimere anche la Facoltà di scienze matematiche e naturali, dhe prima del disastro del dicembre 1908 era altrettanto poco frequentata quanto la Facoltà di lettere. Il denaro così risparmiato – un paio di centinaia di migliaia di lire all’anno – si dovrebbe accantonare e capitalizzare per una decina d’anni: per il tempo, cioè,. che deve trascorrere prima che laggiù si ristabiliscano condizioni di vita normali.
Verso il 1920, con i capitali così accumulati, si potrebbe istituire – oltre alla Facoltà di medicina, fornita di cliniche e di gabinetti non più insufficienti come nel passato – una Scuola superiore di agricoltura, che riescirebbe a decoro della città e a vantaggio della Sicilia e della Calabria più assai che le vecchie e inutili Facoltà di lettere e di scienze e la solita malefica fabbrica di avvocati. […]
Non sarebbe un istituto scientifico siffatto infinitamente più utile alla città e al Mezzogiorno d’Italia che tre facoltà universitarie, di cui due improduttive, e una produttrice solamente di frutti malvagi? E quale intima, mirabile soddisfazione morale per quell’uomo di Stato, che guardando all’avvenire e ascoltando solo la voce del proprio dovere, sfidasse le proteste di pochi senatori e di un paio di deputati, e sapesse fortemente volere il bene effettivo di quella sventurata città: sventurata non solo per la inimicizia della natura, ma anche per la perversa bestiale cecità della sua classe dominante?
Gaetano Salvemini, Per l’Università di Messina (10 agosto 1911), ora in Id., Scritti sulla questione meridionale. 1896-1955, Torino, Einaudi, 1955, pp. 432-434.