La proposta arriva da Giovanni Abramo e Ciriaco D’Angelo dell’università di Roma Tor Vergata sul TuttoScienze di oggi: poche università dove far confluire i migliori docenti in grado di attirare capitali dal mondo privato e, perché no, anche dall’estero. Questi nuovi poli sarebbero caratterizzati da anime specifiche e non un grande numero di atenei indifferenziati, dove si fatica a individuare centri d’eccellenza. Distinguiamo che è in grado di produrre nuova conoscenza da chi prende uno stipendio (pubblico) ma non contribuisce alla ricchezza, anche solo intellettuale del paese. Nelle science dure, per esempio, il 23% dei ricercatori produce il 77% del totale dei risultati del settore in Italia. Consideriamo le tre università romane, suggeriscono Abramo e D’Angelo: prendiamo i ricercatori più produttivi per accorparli in una nuova struttura. Si otterrebbe una nuova università estremamente più performante di tutte le altre italiane, comprese le sei Scuole Superiori.
Quella di Abramo e D’Angelo è una proposta che probabilmente avrebbe bisogno di articolarsi più dettagliattamente per poter essere analizzata completamente, ma è di una semplicità logica che – diremmo – poteva venire in mente a chiunque. Ma nella sua linearità ha il merito di individuare il nocciolo del problema. Nei troppi atenei italiani si annidano troppi docenti che pesano sulla spesa pubblica ma che non sono il motore della ricerca né dell’innovazione dell’Italia. Sono loro a tarpare le ali a qualsiasi tentativo di prendere il volo. Inoltre più le organizzazioni crescono di numero e complessità, parallelamente cresce la burocrazia che sottrae tempo e risorse alla ricerca e all’insegnamento.
Il problema del numero troppo elevato di atenei è vecchio come l’università unitaria. Già un ministro dell’Istruzione come Carlo Matteucci, in carica nel 1862, se ne lamentava ma capiva che era impossibile risolvere il problema senza scontentare qualcuno. In un periodo caratterizzato da problemi ben più urgenti, la questione cadde prima ancora di essere posta. Rispetto ad allora, oggi non è più necessario che i giovani italiani trovino l’università sotto casa e non è più nemmeno necessario che ogni università offra tutte i possibili percorsi formativi immaginabili. Ci si può spostare in un’altra città, seguendo qualità e inclinazioni personali.
Sapeva bene Matteucci all’indomani dell’unità italiana e sanno bene anche Abramo e D’Angelo oggi che il vero problema è cosa fare di tutti quei docenti che non rientrano nella top class. La proposta dei due ricercatori romani è un progressivo taglio che avrebbe anche il merito di liberare risorse allocabili in altro modo. Non si fece nel 1862 e, temo, non si farà nemmeno oggi. In un paese che non riesce a gestire un innalzamento dell’età pensionabile non credo sarebbe più facile gestire il licenziamento di qualche migliaio di docenti improduttivi.
L’impressione che si ricava è che 150 anni dopo il ministero di Matteucci ci si ritrovi sempre in un situazione simile, in cui le colpe ricadono sempre su chi è venuto prima di noi. Su di un’eredità che non abbiamo mai la forza di gestire e affrontare come sarebbe necessario e auspicabile fare. E’ come se avendo un gamba in cancrena non volessimo amputarla perché troviamo difficile separarcene. Con il risultato che l’infezione si allarga, contagia nuovi tessuti ed organi. Chi chiederebbe di fermarsi al medico con la sega in mano sapendo di condannarci a morte? E chi di noi gestirebbe in questo modo i propri affari e le proprie finanze, oltre che le proprie possibilità di futuro? (marco boscolo)