Arbe Garbe “Books Across Balkans”14/06/2012 ZAGABRIA – ŠABAC (seconda parte)

GUERRA E FOLLIA A Šabac siamo ospiti dalla Caritas serba e di altre realtà italiane attive nel sociale: le cooperative Noncello, Itaca, ed il Consorzio delle cooperative di Udine. In Serbia stanno ...

GUERRA E FOLLIA

A Šabac siamo ospiti dalla Caritas serba e di altre realtà italiane attive nel sociale: le cooperative Noncello, Itaca, ed il Consorzio delle cooperative di Udine. In Serbia stanno cominciando a chiudere i manicomi e cercano alternative all’internamento di quelli che si trovano ad affrontare problemi mentali, un numero in aumento dopo le recenti guerre. Ci siamo incontrati con i responsabili italiani prima della partenza e ci hanno spiegato il senso di quello che stanno facendo in ex Jugoslavia, la promozione del diritto alla salute ed alla cittadinanza ha lo scopo di dare una vita migliore a chi, per i più diversi motivi, i nervi hanno ceduto. Allo stesso tempo questo significa fare un grosso lavoro con i mille pregiudizi della gente comune verso la sofferenza psichica. Qualcosa di simile hanno fatto in Italia dopo la riforma della psichiatria di Basaglia. Noi suoniamo in un viale nel centro, tra un viavai di gente. Ci esibiamo subito dopo un gruppo locale che pare avere un buon seguito in zona. Il problema maggiore qui è comunicare, perché l’inglese non lo capisce quasi nessuno. Ci siamo fatti tradurre un paio di frasi ad effetto da Marijana che recitiamo tra un pezzo e l’altro, ma servirebbe qualcosa di più per coinvolgere la gente. Scendiamo dal palco dopo l’ultima canzone e si avvicina un vecchietto magro e sdentato che chiede una sigaretta. Fumiamo sotto un lampione, a pochi metri dal furgone parcheggiato, tra passanti e qualche poliziotto che controlla la situazione.

Il tipo ride e parla in modo bizzarro, credo che anche un serbo avrebbe qualche difficoltà a capire quello che dice. Ma ad un certo punto parte la scintilla. Vengo preso dal vortice ipnotico del discorso, saranno i suoi gesti, le sue smorfie o le quattro parole che comprendo, ma riesco a seguire il suo ragionamento. Sta parlando della guerra e criticando la situazione politica. Corruzione è la parola che ripete più volte nella sua invettiva. Beviamo una birra in due e lui prosegue a tempestare di parole i pochi denti. A vederlo mi pare possa fare parte di quella percentuale di persone che si sono rivolte ad un ospedale psichiatrico, spontaneamente o, forse più probabilmente, a forza, o forse sono solamente pregiudizi dovuti ad anni di lavoro in psichiatria. Intanto il mio nuovo amico continua a parlare e raccontare, e dopo un’altra cicca a scrocco mi saluta e se ne và. Il concerto gli è piaciuto, dice per congedarsi. Rinchiudere i folli perché pericolosi? Sarà poi utile? Stalin li internava, poi li eliminava, una tattica più risolutiva di quella adottata nel resto dell’Europa, dove venivano rinchiusi in istituti da cui difficilmente sarebbero usciti. Hitler usava la stessa strategia di Stalin, forse per dimenticarsi di quella forma d’isteria che lo rese cieco dopo la prima guerra e che, a quanto pare, lo costrinse alle cure di uno strizza cervelli. Senza andare tanto lontano, in queste terre non si può non parlare dello psichiatra Karadžić, a cui molti attribuiscono oltre che i ben noti massacri, anche alcuni anni di terapie e consulenze a Slobodan Milošević. Che dire di questi? Lucidi statisti o personalità disturbate a cui è andata molto meglio che ad altri poveracci? Se la follia è una soglia sull’abisso, non pare irrilevante tenere in mano le chiavi della porta.

IT’S SHIT, BUT I LOVE IT

Il gruppo che ci ha aperto il concerto faceva un buon crossover tra punk, ska e reggae. Ceniamo assieme a loro e agli organizzatori in un tipico ristorante serbo, coi camerieri che riempiono i bicchieri di rakjia e portano le birre fresche non appena vedono una bottiglia vuota. Una tavolata enorme che lasceremo a fine serata, per passare la notte in una struttura per bambini dove ci accoglieranno tanti lettini a castello di vaghe reminescenze fiabesche.

L’ aria è piena di melodie balcaniche suonate da un duo modello piano bar che occupa la sala adiacente. Camerieri impettiti vanno e vengono tra la sala e la cucina, con mille portate di cibo, per lo più carne. I ragazzi della band di Šabac ci raccontano della scena underground di qua. Đorđe, il loro cantante, è un personaggio carismatico. Uno dalla mente aperta, studia psicologia ed è stato per un po’ di tempo a Torino. Parliamo di musica e di cinema, della prossima uscita dell’Hobbit di Peter Jackson e soprattutto della nuova colossale opera su cui sta lavorando Kusturica: un adattamento del Ponte sulla Drina con tanto di ricostruzione del villaggio di Visegrad, cosa che sta procurando al regista una selva di polemiche per i modi più o meno ortodossi in cui ricostruirà la cittadina descritta da Andrić. Đorđe ama Kusturica, lo ritiene uno tra i più grandi registi al mondo e, con un certo orgoglio, un vero serbo, parere che non stona con quello che ci circonda: orchestra, cibo tipico e bicchierini di rakija che accompagnano la birra. “La gente non capiva bene come ballare la vostra musica” ci dice, “le piaceva e si vedeva, ma non era facile da interpretare per loro, qui andiamo su cose diverse, musica nazionale, come quella che sta suonando l’orchestrina di là”.

Vorrei chiedere a Đorđe dei ragazzi che durante il concerto facevano il saluto cetnico verso di noi, ma lascio perdere. Guardo Marijana. L’indistruttibile video reporter è stanca e pare abbia voglia di andare a dormire, questa voglia di identità sembra toglierle l’appetito. E’ da giorni che dice di non veder l’ora di respirare l’aria di casa a Sarajevo. Đorđe nel frattempo continua a parlarmi del suo amore per la Serbia con un inglese marcato dal simpatico accento slavo. E’ un amore cieco che sembra passare sopra a tutto. “Prendi questa canzone”, e si gira verso di me invitandomi ad ascoltare il gruppo, “è una canzone tipica di questi posti cantata da questa orchestra, che per altro non mi piace per niente, ma è una canzone serba, come spiegarti?” canta alcuni versi assieme alla voce che gracchia dal microfono e mi confessa “It’s a shit, but I love it”.

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