Alcuni illustri colleghi hanno scritto che «chi parla di consolidare il debito (un eufemismo per ripudiarlo) è un irresponsabile che altro non fa che aumentare il costo del debito stesso e quindi le imposte».
Se siamo noi i destinatari – e non vediamo chi altro possa esserlo dato che siamo gli unici ad aver argomentato su questo quotidiano la necessità di un consolidamento immediato per uscire dalle due crisi, europea e interna – riteniamo che ci tributiate troppo onore nel dire che la nostra proposta determina una tragedia di mercato.
Ancora una volta viene proposto un tabù, dopo quello della crisi dell’euro e della manovra deflazionistica di Monti che non si devono discutere. Al mercato poco interessa di ciò che diciamo noi e, ci spiace, anche voi, e valuta lo stato in cui si trova il Paese: non esiste una guida politica stabile, non c’è crescita neanche prevedibile e non esiste uno “scudo” europeo, neanche se rinunciamo alla sovranità fiscale. Perciò, se atto d’imperio deve essere fatto perché la corda non si stringa intorno al collo dell’Italia, questo è l’allungamento della scadenza dell’intero debito pubblico a condizioni vantaggiose come quelle da noi indicate: un interesse pari all’inflazione e una piccola percentuale della crescita, se riusciamo a raggiungerla.
Una siffatta decisione forse aumenterà nel breve periodo lo spread, ma questo non si incorporerà nel bilancio pubblico perché non ci sarà bisogno per un lungo periodo di emettere nuovi titoli. Certo, diamo per scontato con voi che non vi sia più un disavanzo di bilancio pubblico, ossia che l’Italia continui a rispettare il pareggio di bilancio deciso in sede europea e che è stato incorporato nella sua architettura istituzionale. Solo allora si potrà sperare di ridurre la pressione fiscale. Vi è la possibilità che il valore di mercato dei titoli pubblici possa ulteriormente cadere, ma ciò indurrebbe a trattenere i titoli in portafoglio. L’operazione non è indolore, ma promette di essere meno dolorosa dell’agonia in forma di stillicidio propinataci dallo status quo.
Crediamo che l’avere previsto l’inefficacia dei diritti speciali di prelievo e il crollo del sistema di Bretton Woods, la svalutazione della lira nel 1992 e la pericolosità degli sviluppi del mercato dei derivati ci dia un qualche titolo a interpretare che l’Italia non possa reggere alla lunga nella fragile architettura dell’area euro, e non è da escludere che sia tale struttura a implodere prima che il Paese la molli.
Aspettiamo l’evento o facciamo qualcosa prima? La cessione del patrimonio pubblico non basta più: doveva essere fatta prima dell’aumento della pressione fiscale. È arrivata l’ora di posporre la data del rimborso del debito, soprattutto se si crede che il combinato effetto dell’attuale politica economica nazionale e di quella europea porti allo sviluppo perché consentirebbe di dare tempo al Paese di coglierne gli effetti. Giocando d’anticipo si sposterebbe la distribuzione dei benefici netti all’interno dell’eurozona, che al momento favorisce la Germania a scapito dell’Italia. La Germania può condurre politiche commerciali vantaggiose per il suo trascurabile costo del danaro e godere di un cambio fortemente sottovalutato, condizioni opposte per i Paesi del Sud dell’euro; presenta infatti un avanzo di bilancia estera corrente superiore alla Cina, senza alcun intenzione, né richiesta da parte del resto del mondo, di trovare una soluzione come quella richiesta al Paese asiatico, ossia rivalutare o espandere la domanda interna; chiede invece ai Paesi in deficit dell’area euro di sobbarcarsi l’onere totale dell’aggiustamento degli squilibri esterni europei, imponendo così deflazione. Come può cavarsela l’Italia? Forse siamo pessimisti, ma ricordava Guido Carli che i pessimisti tendono ad essere più informati degli ottimisti.
Cari colleghi, non dispensiamo verità, ma crediamo che sia arrivato il momento di discutere seriamente sulle opzioni meno costose per uscire da questa crisi senza invocare tabù o nascondere la realtà.
Michele Fratianni e Paolo Savona
Articolo apparso originariamente su Il Sole 24 Ore, 14 Agosto 2012.