Il Cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano dal 1979 al 2002, ha voluto che sulla sua tomba venissero incise le parole del salmo 118: «Lampada ai miei passi la tua parola, luce al mio cammino». Una verità fondamentale per ogni cristiano, certo, ma in maniera particolare per chi è chiamato, come pastore, a guidare nella fede coloro che gli sono stati affidati. Tra le sue iniziative più importanti, infatti, c’è l’introduzione in diocesi della “Scuola della Parola”, per accostare i laici alla Sacra Scrittura con il metodo della Lectio divina, e la “Cattedra dei non credenti”, serie di incontri rivolti a persone, anche non credenti, in ricerca della verità.
Della sua opera intellettuale, del suo ministero pastorale, della sua vita, insomma, questo solo resterà. Aver preso sul serio, studiandola con tutti gli strumenti possibili – dalla filologia all’esegesi, dalla storiografia all’archeologia – la pretesa di quell’Uomo che più di duemila anni fa, tra Nazaret e Gerusalemme, ebbe l’ardire di proclamarsi Figlio di Dio, salì sulla Croce e risuscitò il terzo giorno, come proclama il Credo.
«Considerate ogni cosa, tenete ciò che buono», scriveva San Paolo ai Tessalonicesi. Ed è esattamente quello che ha fatto Martini in tutta la sua vita. Ha posto la Bibbia al centro del dibattito, con coraggio e lucidità. E molti, ascoltandolo, hanno fatto la stessa esperienza che il poeta Clemente Rebora descrive in Curriculum vitae: «La Parola zittì chiacchiere mie».
L’agonia e la morte del cardinale Martini, anziché dal silenzio e della preghiera, sono state però accompagnate da numerose dichiarazioni di politici, opinionisti e teologi aspiranti eretici che lo hanno elogiato per la scelta di dire no all’accanimento terapeutico (ma quale accanimento?) rammaricandosi che se fosse diventato Papa al posto di Joseph Ratzinger oggi avremmo una Chiesa più aperta, libera e progressista. Pronta, magari, a dire sì all’aborto, alle coppie gay e alla fecondazione eterologa.
Nell’ora della morte di questo insigne biblista si è riproposto, in sostanza, lo stesso stucchevole film che vede protagonista da anni, ormai, una larga parte del laicismo italiano il quale ha la pretesa di dire alla Chiesa Cattolica quello che deve dire e fare per essere cristiana. Che è poi un modo subdolo per combatterla. E la lezione del laicismo italiano è molto semplice: essi vogliono che la Chiesa sia carità senza verità. Il maestro di questo filone di pensiero è senza dubbio Eugenio Scalfari che invita i cattolici ad amare il diverso in quanto diverso. «Farsi tutto con tutti», dice San Paolo e i laicisti di casa nostra – gli stessi che hanno strumentalizzato l’opera pastorale e finanche la morte di Carlo Maria Martini – lo intendono così: per essere veramente cristiani occorre accettare la verità dell’avversario e svuotarsi, ridursi, rimpicciolirsi. Per queste persone, insomma, essere cristiani significa alienarsi nella verità dell’altro, conformarsi all’opinione dominante. Fino a dissolversi.
La Chiesa, invece, non ritiene di dover bruciare neppure un granello di incenso al dio dei nostri giorni: l’opinione pubblica. Ma questo ai laicisti non va proprio giù e nella loro crociata sono arrivati ad “arruolare” anche Martini, persino nell’ora della morte, strumentalizzando molte sue riflessioni e provocazioni condotte più in veste di vivace intellettuale che di vescovo e cardinale, in cui ha dimostrato sempre obbedienza e fedeltà. Ma la riposta, implicita, Martini credo l’abbia data scegliendo come suo motto episcopale l’espressione: “Pro veritate adversa diligere”, “Per il servizio alla verità bisogna essere pronto ad amare anche le avversità”. Appunto.