La procura di Palermo ha ritenuto corretto non distruggere immediatamente le intercettazioni che hanno toccato il capo dello stato. In questo modo una delle più importanti indagini degli ultimi anni ha sostanzialmente imboccato a passo svelto la via della politica, marginalizzando quella del diritto. Tutto così si è sformato, modificato, complicato. Sgombriamo allora il campo dagli equivoci, partendo da tre dati certi.
Il primo. Che un’intercettazione del presidente della repubblica (diretta o indiretta che sia), al di fuori delle previsioni dell’articolo 90 della Costituzione e di quanto l’ordinamento in merito prevede (in particolare la legge n. 219 del 1989), è una violazione di legge. Se alcuni ritengono – come la procura di Palermo – tutto ciò opinabile, vi è un’unica strada: bisogna procedere, in modo tanto scontato quanto doveroso, ad un ricorso di fronte alla Corte costituzionale per sciogliere il nodo giuridico, così come ha fatto, molto opportunamente, il capo dello stato.
Il secondo. Che se si tratti, invece, come ha rimarcato Valerio Onida (Corriere della Sera, 19 agosto), di un’altra cosa, ossia di un’indagine su di una “trattativa” in merito ad alti funzionari dello stato che indica e prevede ipoteticamente puntuali reati ministeriali; se così è, allora la sede e la procedura corrette sarebbero il Tribunale dei ministri, secondo l’articolo 96 della Costituzione e la legge costituzionale n. 1 del 1989. Ma questo, al momento, non parrebbe il senso dell’indagine della procura di Palermo, contro cui nessuno sin qui ha presentato un ulteriore conflitto di attribuzione che avrebbe potuto vincere.
Il terzo dato, infine. Il 19 settembre riceveremo la risposta definitiva a quel dubbio: la Corte costituzionale si esprimerà sul punto e ci dirà se l’opinione della procura di Palermo – che non ritiene doveroso, appunto, distruggere immediatamente le registrazioni del capo dello stato – sia legittima o meno. In questi tre punti vi sono i dati certi di questo dibattito. E questo, sinteticamente, è quel che conta per il diritto, oltre che per tutti coloro che si sono dedicati a dibattiti estivi in merito.
Invece, in questo agosto “di galleggiamento” della politica, l’intento di molti commentatori è stato quello di imbastardire questa vicenda, intorbidendone il quadro con una evidente campagna mediatica, usando il tutto per la parte, le opinioni al posto dei fatti, le allusioni al posto dei ragionamenti. Un comportamento, evidentemente, né corretto né utile, soprattutto in questo momento. Tuttavia, lasciando quel tipo di dibattito agli esegeti della politique politicenne, conviene concentrarsi invece sui ragionamenti formulati in tema da coloro che lo hanno fatto nell’ottica della più classica “politica del diritto”. Qui troviamo, con un vero intervento di rupture, quello di Gustavo Zagrebelsky (Repubblica, 17 agosto): un intervento operato con spirito discorsivo sull’opportunità dell’azione del presidente, come poi ha ulteriormente precisato ieri. La tesi? In un’eterogenesi dei fini, il presidente della repubblica rischia con il ricorso alla Corte di favorire «un’operazione di discredito, di isolamento morale, e di intimidazione dei magistrati», e quindi sarebbe opportuno che ritiri il ricorso. L’impostazione di Gustavo Zagrebelsky è dentro un quadro concettuale che vede tra politica e giurisdizione quest’ultima ormai allargare – dal suo punto di vista, legittimamente – il suo campo fino al punto da rendere tollerabile che il diritto giurisprudenziale occupi anche lo spazio del diritto legislativo, contribuendo così a rendere asfittico il circuito degli altri poteri, a partire da quelli democraticamente eletti. Il giudice, insomma, (quasi) come unico attore del processo democratico. L’alfa e l’omega della democrazia.
Questa impostazione, come già ha sottolineato Marco Olivetti proprio su Europa del 18 agosto, non sembra convincente. Anzi. Essa, nel consentire il travolgimento degli articoli 90 e 96 della Costituzione e quindi i ruoli di presidente e parlamento a favore di qualsiasi iniziativa delle procure, finisce per negare più profondamente la separazione dei poteri a favore di un giudiziario assoluto; un potere che si sente e si vive – a maggior ragione legittimato da impostazioni autorevoli – come l’unico vero soggetto sovrano, puro interprete della Costituzione e dell’ordinamento in ragione della sua tecnicalità. Un giudiziario che però, in questa vicenda, come sottolinea Gustavo Zagrebelsky andrebbe protetto dalla stessa procedura democratica di risoluzione dei conflitti di questo tipo, individuata dal Costituente di fronte alla Corte, poiché essa potrebbe costituire «un’alleanza in vista di una sentenza schiacciante». Too much.
Ebbene, in una democrazia, come in ogni cosa, il distinguere fa la differenza. Non rendersi conto che sono proprio impostazioni di questo tipo che, invece, portano ad un’“eterogenesi dei fini”, affondando le istituzioni in nome delle istituzioni, è un rischio che neanche la politica del diritto si può permettere. Figuriamoci il diritto.
* Articolo uscito in prima pagina su “Europa Quotidiano” del 24 agosto 2012 [link]