Impressa su acciaio morbido e rassicurante, vive all’ombra di un museo in costruzione, giusto sopra un invisibile canale di acqua viva.È nel cratere verso nord, quel buco con l’abominio intorno: potresti ignorarla tant’è lontana dall’ingresso del mausoleo. Oppure potresti incontrarla per caso mentre ti chiedi che volto abbiano le impronte di cui pronunci i cognomi, dentro un pellegrinaggio testardo e spensierato. Anche in giornate torride come questa, quel metallo in cui le quattordici lettere sono incise non scotta per nulla, dunque sei autorizzato a chiederti dove sia il trucco: la tua ingenuità è curiosità nobilissima, non aver fretta di silenziare i tuoi dolci dubbi sciocchi. Elvira non hai idea di che sorta di giornate passasse o di chi si fosse innamorata in un caffè letterario di Soho o se avesse un appartamento tutto suo al secondo piano senza ascensore. È un bel nome, Elvira, ci chiameresti tua figlia se non ti piacessero i nomi che cominciano con la A, anche Andrea per una bimba, e non è per nulla una scelta grossolana: il nome con cui ti chiamano gli altri. Elvira Granitto non l’abbiamo scelta perché suonava bene, ci siamo incontrati a metà strada tra la nostra distrazione agostana e la sua voglia di raccontarsi.
Elvira Granitto è un modesto esercizio di memoria condivisa, un arrogante esperimento di letteratura del ricordo. Potrebbe avere trentotto anni al massimo (se ci hai preso, giuro che sei un genio!) e due figli, non sappiamo se un maschio e una femmina (direi di no: chi ha il tempo per la prole a New York?). Non era qui per caso, ci lavorava in questa Torre maledetta (e se lavorava qui, di certo non avrebbe avuto il tempo di mettere al mondo due mocciosi). Ma programmava di rientrare in Italia, quest’inferno dorato non può che essere una tappa (per nulla: potrebbe avere dei genitori italoamericani e di mediterraneo solo le generalità). Di Elvira Granitto sappiamo tremendamente poco, circa nulla. E si potrebbe raccontare la sua di storia, perché frazione di un romanzo affollatissimo, abitato da vittime inconsapevoli ed infestato da milizie del terrore. Elvira sa di insalata speziata, di chioma riccia, di lenti a contatto. Forse di tacchi alti e lucidi, sicuramente di sneakers per tornare a casa dall’ufficio, magari di commercialista puntuale e discola, di sigarette dopo cena senza dare nell’occhio. Ed era una che sorrideva un sacco, questo senza dubbio, una che era anche felice di darti una mano coi tuoi casini inestricabili (ma così vai sul sicuro: hai mai incontrato un’Elvira che non ti rapisse coi suoi sorrisi colorati e contagiosi?).
Elvira Granitto ha un posto tutto suo nella tragedia del 9/11. E le toccherà oggi tollerare la fatica della rievocazione, il suo nome è la dinamite che farà brillare questo vuoto blindato, prima di procedere ad un’ispezione che consenta a noi profani di calarci nella cava del passato prossimo. Di questo pure abbiam riflettuto: tra destini ineluttabili, preferisti sopravvivere ad un’ecatombe o farti carico della testimonianza oculare? Mettici egoismo, dovere di cronaca e sete di vita ma anche equilibrio, solitudine e responsabilità nel risolvere il dilemma e, se non ce la fai, benvenuto: sei dei nostri. Per non fare un torto a Elvira, rinunceremo alla narrazione per dedicarci alla storia. “Vira”, oppure “Vera” per gli americani, non passava di lì per caso: lavorava da tempo al World Trade Center, piano settantesimo. Quarantatré anni, ci siam sbagliati ma neanche troppo, due figli ed un marito tutto suo fino ad un certo punto, abbiam toppato alla grande in questo caso: per eccesso di cinismo. Sul fatto che sorridesse avevamo ragione noi – se leggeste i ricordi strazianti di chi la conosceva nella Spoon River delle vittime dell’Undici Settembre, tutte vi diranno: «Ce ne fossero di sorrisi come i suoi». Dicono proprio così: «Her outlook on life was one of optimism and met each day with a smile».
In rete si è fatta sentire anche Anne, sua figlia, per dire che le manca un sacco «la mamma migliore del mondo». Le stava insegnando a cucire a mano, che è un rito iniziatico che si consuma ancora oggi, d’estate, sugli usci scalcinati di un Meridione senza nome. Elvira era sbarcata in America quando aveva sei anni, stretta alla mano dei suoi genitori in cerca di fortuna. Dicono che amasse leggere, che fosse severa nei giudizi alle opere che divorava lungo il tragitto dal Bronx, dove viveva, fino al Financial District, dunque speriamo faccia un’eccezione per questo affronto che le stiamo muovendo. Scriver la sua storia, senza pretesa alcuna: se non la maramalda sfida all’oblio. Può capitare infine che l’intreccio di vite si snodi per caso, mentre racconti di “Vera”. Il ricamo delicato delle storie si sbroglia e restituisce quella di Anne, sua figlia. Che merita un capitolo personalissimo. Elvira Granitto stava per festeggiare il venticinquesimo anno di lavoro alle assicurazioni Blue Cross Blue Shield ed Anne aveva solo undici anni mentre le strappavano via una mamma sorridente. Qualche anno più tardi ha vinto una scholarship al College “Thomas Aquinas in Rockland County” grazie ad un fondo destinato alle famiglie delle vittime. Studierà diritto penale, con dedica ad Elvira: non ce l’avrebbe mai fatta altrimenti.
Va matta per “Law & Order” e potrebbe iscriversi al “criminal justice club” o a quello di recitazione, ma pure ballare – che c’entra poco coi criminali, la droga e le pistole – le piace un sacco: si tratta solo di scegliere su quale talento lanciare i dadi. Dalla madre ha ereditato un anello che porta al dito ed un sorriso stampato sul volto. Anne di cognome fa Earthman, ma nelle vene le scorre sangue napoletano dal lato di madre. Eppure, chissà perché, ci eravamo figurati che Elvira venisse dal Settentrione. Ma siamo piuttosto inaffidabili come scultori di vite altrui, siamo andati forte con la pialla e il nostro scalpello era a tratti furioso. Il cadavere di Elvira, per più di un anno, è rimasto sepolto sotto le macerie delle Torri Gemelle, trai detriti bruciacchiati di uffici prestigiosi e la follia ceca di squilibrate sante guerre. Dentro un tonfo che ha trasformato due sfide al cielo in fontane luminose che oggi, in agosto, sembran tuffi in piscina, verso il centro della Terra. «In the beginning, I wasn’t looking at school, I wasn’t thinking positively about my life – dice Anne, ventiduenne come noi – It was when they found my mother that I realized I needed to start focusing on myself and make her proud». I cronisti la definiscono “figlia dell’Undici Settembre”: da grande spera di lavorare al ‘Federal Bureau of Alcohol, Tobacco and Firearms’. Questo il suo sogno, ed Elvira Granitto non è solo una scritta.