In questi giorni ci sono state molte reazioni alla sentenza di condanna a 21 anni (con pena rinnovabile ogni cinque anni di fronte alla comprovata pericolosità sociale del condannato) a cui è stato condannato Anders Behring Breivik, responsabile della strage di Utoya. Il pubblico italiano sembra decisamente colpito dalla mitezza della pena e reclama misure ulteriori, spesso istigato da articoli giornalistici che hanno selezionato le informazioni quasi nel tentativo di ottenere reazioni scomposte, anche da parte di testate a cui, un tempo, le vite tragicamente spente a Utoya non sono sembrate poi così degne di essere vissute. D’altro canto, molte delle risposte più meditate al proliferare di questi atteggiamenti anche a sinistra hanno ripreso (secondo me assai giustamente) l’importanza essenziale che in una autentica cultura progressista deve essere riservata all’orientamento della pena carceraria al recupero alla società dei colpevoli, e hanno ripreso in questo generale contesto operativo temi come la necessità di evitare le condizioni carcerarie intollerabili a cui in Italia siamo colpevolmente, fin troppo abituati.
Io vorrei soffermarmi su una questione secondo me trascurata in altri interventi. La condanna a 21 anni (comunque prolungabili, come ho detto), che ha portato gran parte del pubblico italiano a chiedersi cosa passava nella testa dei giudici quando l’hanno comminata, è la pena più elevata prevista dal codice penale norvegese. I giudici non potevano comminarne altre; ci sono delle leggi, frutto di un preciso percorso istituzionale gestito dai rappresentanti del popolo sovrano e da essi implicitamente approvate finché non sono modificate, che i giudici non possono non applicare. Il fatto che una percentuale vicina all’80% dei norvegesi si sia detta soddisfatta degli esiti del processo non può non essere collegata al fatto che in esso sono state applicate leggi che, di fronte all’operato delle istituzioni rappresentative e al vaglio delle elezioni, il corpo elettorale ha mostrato di accogliere come adeguate.
Anche in Italia, lo svolgimento delle indagini penali e l’esito dei processi sono il frutto di norme approvate esplicitamente dalle istituzioni rappresentative e, quindi, accolte implicitamente dagli elettori che hanno contribuito a produrle (e che avevano il dovere di informarsi al meglio sulle responsabilità di ogni parlamentare e di ogni partito nei processi legislativi, prima di votarli). Quindi, è colpa nostra se indagini e procedimenti possono protrarsi agevolmente fino alla prescrizione; se nei dibattimenti il confronto sull’ammissibilità di prove, testimonianze e analisi assorbe i lavori fino a rendere impossibile capire cosa accusa e difesa ritengono sia successo; se in prigione finiscono soprattutto gli innocenti, mentre una volta che qualcuno è dichiarato colpevole le possibilità di uscire in vario modo prima della conclusione della pena si presentano rapidamente e sono molto generose; se le condizioni di pena sono la causa principale di un tasso di recidiva patologicamente alto, e che non è certo dovuto al fatto che i “nostri” criminali siano “più criminali” degli altri.
Forse dovremmo ricordarcelo quando torneremo a lamentarci coi giudici ogni volta che ratificano decisioni che noi abbiamo approvato dovendo comminare sei anni di pena per stupro di gruppo, con il disgustoso corollario dei parlamentari che, sostanzialmente, vanno in televisione a lamentarsi dell’applicazione delle leggi che essi stessi hanno scritto. Ma è tipico della nostra opinione pubblica pensare che la colpa di queste cose sia sempre di qualcun altro, e surrogare l’impegno per un sistema giudiziario e detentivo efficiente con la richiesta urlata di violenze intollerabili, con la consapevolezza che non potranno essere prese in condiderazione e che quindi si potrà continuare a lamentarsi allo stesso modo.