A mente freddaL’anno perduto della nostra classe politica

Si parla, in questi giorni, della serpeggiante "voglia di grande coalizione" tra gli esponenti più in vista delle forze di governo. Viste anche le reazioni magari orientate alla soluzione, ma non e...

Si parla, in questi giorni, della serpeggiante “voglia di grande coalizione” tra gli esponenti più in vista delle forze di governo. Viste anche le reazioni magari orientate alla soluzione, ma non entusiaste, io parlerei di una necessità. I leader delle principali forze rappresentate in Parlamento non riescono a guardare al post-elezioni staccandosi da una prospettiva di continuità con l’attuale stagione, e propongono un equilibrio per certi versi simile al fine di garantire la presenza di un Esecutivo della stessa pasta di questo: un gruppo di esperti che gestisce l’esistente, andando incontro ai passaggi obbligati che il paese deve eseguire per restare in linea di galleggiamento nei momenti in cui deve andare a chiedere il rifinanziamento del suo debito, e per il resto un’intera classe politica sostanzialmente non decide e non propone.

I tentativi per uscire da questo impasse ci sono anche stati, ma tutte le proposte circolanti nei quartieri alti dei partiti maggiori sono state formulate e si sono esaurite in una sorta di percorso circolare che ha riportato tutti al punto di partenza, e nonostante questo non sono mai riuscite a individuare dei problemi effettivi, dei temi forti che effettivamente rinnovassero il coinvolgimento all’interno delle strutture di rappresentanza. Il caso più evidente, anche per il “ritorno di fiamma” di questi giorni, è la riforma della legge elettorale: un balletto cominciato all’inizio dell’anno, andato avanti in modo tormentato, ma risolto in modo che la proposta sul tappeto oggi ha sostanzialmente gli stessi limiti di quella originaria, il tutto in un tragitto in cui l’interesse esclusivo dei riformatori era quello di garantirsi la possibilità di precostituire gli quilibri parlamentari, non certo quello di migliorare il rendimento del rapporto tra eletti ed elettori.

Il fatto che si sia ancora a questo punto è tanto più grave, perché la classe politica italiana viene da diversi mesi di “pausa di riflessione”. Con la crisi del governo Berlusconi e l’avvento dell’era Monti, l leader italiani avevano preso atto di una loro definitiva incapacità di venire a capo della situazione, sia per la povertà programmatica, sia per l’ormai conclamata incapacità di svolgere il loro ruolo di gestori della rappresentanza tra politica e società. Le due cose, mi è già capitato di dire, sono collegate: senza capacità di coinvolgimento dei cittadini in progetti adeguati, i partiti si sono messi a inseguire i più bassi istinti del corpo elettorale al fine di mantenere il consenso necessario all’autoconservazione.

Di conseguenza, l’agenda che la classe politica italiana aveva davanti era chiara, inequivocabile e non più rimandabile: rielaborare in modo ampio e definitivo i propri obiettivi, riacquistare capacità di elaborare proposte, riprendere le fila dei rapporti con la società civile con vecchi e nuovi metodi di mobilitazione e di contatto con la cittadinanza ai vari livelli politico-amministrativi, per tornare a creare consenso invece di inseguirlo.

In due parole, in questi mesi la politica avrebbe potuto rimettersi in gioco dal basso, con il recupero della propria capacità di mobilitare gli elettori, e dall’alto, con il coinvolgimento del personale adeguato per un rinnovamento della propria proposta politica. In effetti, un elemento che ha lasciato piuttosto sconcertati gli osservatori è proprio il fatto che, per avere al Governo personale di un certo profilo professionale e culturale, si siano dovuti fare da parte i partiti, ovvero quelle agenzie che dovrebbero mobilitare alla politica le migliori energie intellettuali.

Sorprende, e lascia estremamente preoccupati, constatare come tutti questi impegni siano stati completamente disattesi. Rispetto a un anno fa, infatti, il governo tecnico ha ripreso in mano quantomeno il controllo della “normale amministrazione” pur in un periodo di difficoltà crescenti, ma praticamente nulla è cambiato nei campi su cui la classe politica avrebbe dovuto operare in prima persona.

Da un lato, dopo qualche tentativo di facciata tutte le forze politiche maggiori hanno preferito sostituire l’onesto ritorno a parlare ai cittadini con l’ingegneria elettorale accompagnata dal voto di scambio con le constituencies organizzate più “strutturali” dei vari schieramenti (sindacati, media imprenditoria che cerca protezione dalla competizione, circoli di potere cattolici…). Da questo punto di vista, è quasi stata una benedizione che il MoVimento 5 Stelle si sia imposto come recettore dell’elettorato insoddisfatto: tale formazione ha raggiunto rapidamente i propri limiti strutturali di consenso, e per superarli dovrebbe compiere un salto di qualità che, nel confronto istituzionale “vero” con tutte le sue asprezze, si sta rivelando più difficile del previsto.

Probabilmente, uno sviluppo diverso avrebbe richiesto un robusto ricambio del personale di vertice in tutte le formazioni, visto che quello attuale ha gestito la propria carriera sostanzialmente su questi binari. Ma anche il coinvolgimento di forze culturali alternative è stato per ora fallimentare. Nei confronti della figura maggiormente impegnata nel trovare nuova linfa di consenso e di idee al PD, Matteo Renzi, si è sviluppato un ostracismo sempre più duro man mano che il suo tentativo di costruirsi una rete di riferimenti politici e istituzionali si è sviluppata seriamente. Ancora più disarmante è il destino dei, think tanks, gruppi di pensiero e d’opinione, di varia estrazione liberale e liberista che si sono alternati alla ribalta, pronti a dialogare con tutte le formazioni interessate e a fare da elemento aggregante per intese operative. La parabola del più recente di essi, “Fermare il Declino”, è da questo punto di vista esemplare, perché proprio a causa della chiusura ottusa delle forze politiche di maggiore massa critica il gruppo finira, probabilmente, per partecipare alla battaglia elettorale in proprio senza alcuna ragione, e per finire con tutta probabilità schiacciato dall’impossibilità di strutturare reti di raccolta degli elettori “sul campo” in un tempo così breve.

In conclusione, quindi, quella “voglia di grande coalizione” da cui sono partito mi sembra soprattutto il sintomo della volotà di autoconservazione di una classe politica che ha esaurito il suo percorso storico e propositivo, ma che ha saputo occupare gli spazi per la “riproduzione” di nuovi gruppi dirigenti all’interno o all’esterno delle proprie strutture di gestione del potere. Il tutto in una situazione in cui la “vacanza” della politica è ormai agli sgoccioli, perché per portare avanti un percorso riformatore più inciviso delle pezze dei tecnici serve un consenso reale, che non potrà essere creato che dalle agenzie preposte a questo compito. Da questo punto di vista, i timori internazionali per la successione a Monti, pur in una generale consapevolezza dei limiti della base operativa del suo governo, diventano pienamente comprensibili.

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