C’era qualcosa di veramente apocalittico, nel senso etimologico di rivelazione, nella conferenza stampa tenuta a Bolzano da Alex Schwazer l’8 agosto. Il marciatore altoatesino, trovato positivo a un controllo antidoping ed escluso dalle Olimpiadi di Londra, aveva lo sguardo basso, piangeva e scuoteva il capo davanti ai flash impietosi di giornalisti e fotografi. Come se la testa, sorretta tra le mani, fosse diventata, ad un tratto, pesantissima. E lo sguardo, impossibile da sostenere. Anche nei confronti di una folla di sconosciuti. Gli studiosi di prossemica potrebbero scriverci un trattato. Ma non è questo il punto.
«Ho vissuto tre anni difficili come atleta», ha detto Schwazer, «dopo gli Europei del 2012 non sono stato bene e ho detto anche che volevo smettere. Non ero più lucido. Con le Olimpiadi davanti ho avuto troppa pressione e ho fatto la scelta sbagliata: correre anche la 20 chilometri».
Poi la frase più drammatica ed emblematica di questa storia: «Con i 50 mi sarei potuto battere tranquillamente. Ma ho avuto paura di fallire: volevo tutto e ho perso tutto».
Ecco il grande idolo del nostro tempo, non solo nello sport: volere tutto. Un idolo davanti al quale s’inginocchiano volentieri anche coloro che in queste ore, ipocritamente, stanno invocando per Schwazer punizioni esemplari. Un idolo che è la cifra autentica del nostro mondo dei consumi e delle tecnologie, dove si fa credere, con l’inganno, che tutto si può avere. Sempre e in ogni caso. È una caricatura colossale. Una menzogna che va respinta fino in fondo.
Tutta la vita moderna, non solo lo sport, risponde a una legge soltanto: vincere sempre, vincere a ogni costo. Non basta soltanto vincere, bisogna anche dimostrare (ma a chi?) di essere eccellenti e perfetti. Non si può perdere un attimo e chi si ferma, si dice, è perduto. E se qualcuno, ad esempio, chiama al cellulare o lascia un messaggio su Facebook, bisogna rispondere subito, in tempo reale. Con urgenza, ci intimano. Quell’urgenza che, per alcuni, è sinonimo di eccellenza.
A chi oggi s’indigna per Schwazer, forse bisognerebbe ricordare una recentissima indagine, passata pressoché inosservata, sulla diffusione degli psicofarmaci tra i giovani dalla quale è emerso che l’8 per cento di ragazzi tra i 15 e i 19 anni ne fa uso, in buona parte per motivi scolastici, per aumentare la concentrazione o moderare l’iperattività, intensificandone l’assunzione in prossimità, ad esempio, dell’esame di maturità. Alcuni commentatori hanno criticato questa abitudine osservando che per superare gli esami basterebbe «semplicemente» studiare. È vero. Ma non in relazione al mito dell’eccellenza, del più bravo, del “migliore di tutti”. L’eccellenza, in quanto idolo, richiede di fare sempre di più e sempre meglio. È un fantasma vorace. Studiare «soltanto» basta a comprendere un argomento ma non ad essere, e sentirmi, un’eccellenza. Per quello, a volte, bisogna doparsi. Schwazer, appunto: «L’ho fatto per correre anche la 20 chilometri. Con la 50 mi sarei potuto battere tranquillamente».
Sotto l’ebbrezza triste del doping, c’è la paura di non essere all’altezza dell’idolo, l’ansia di non accettare il tempo che scorre (con tutto quello che questo comporta, ad esempio, per un atleta), l’incapacità di accettare il limite che è la condizione strutturale e intrinseca dell’uomo, di ognuno di noi, la tentazione della scorciatoia facile per giungere al successo.
Attorno all’idolo, come insegna con grande chiarezza la Bibbia nel capitolo 32 del Libro dell’Esodo, si organizza sempre una scena di distruzione e di morte. Quella distruzione che oggi ha il volto, in lacrime e spaurito, di Alex Schwazer. Quella morte che ieri aveva il volto di Isabelle Caro, la modella e attrice francese morta di anoressia a 28 anni. Pesava appena 31 chili. E ripeteva: «Sono grassa, devo dimagrire ancora di più».