Diario americanoPaul Ryan, Ayn Rand e un’idea sul tramonto dei conservatori USA.

E' vero, come diceva il filosofo americano Arthur O. Lovejoy, che "le idee sono le cose più mobili al mondo", e quindi tutti le possono modificare, riattare, usare secondo i propri interessi, attit...

E’ vero, come diceva il filosofo americano Arthur O. Lovejoy, che “le idee sono le cose più mobili al mondo”, e quindi tutti le possono modificare, riattare, usare secondo i propri interessi, attitudini, capacità. Ma è anche vero che il modo in cui un singolo o un movimento utilizzano e trasformano le idee del passato è spesso estremamente rivelatore di pulsioni e interessi non dichiarati del pensiero presente.

La frase di Lovejoy mi è tornata in mente rileggendo, in questi giorni, del rapporto privilegiato che il candidato repubblicano alla vice-presidenza, Paul Ryan, ha più volte proclamato di avere con la filosofa e scrittrice russo-americana Ayn Rand, l’autrice di “La fonte meravigliosa” e “La rivolta di Atlas”, la teorica dell’oggettivismo diventata negli anni beniamina dei più accaniti sostenitori del libero mercato, del capitalismo, dell’individualismo anarchico e anti-statalista.

Ryan ha spiegato di essere arrivato a regalare copie di “La rivolta di Atlas” ad amici e parenti, per Natale (chissà se la cosa sarebbe piaciuta alla Rand, che di cognome, originariamente, faceva Rosenbaum e che, da atea, non ha mai nascosto il suo disgusto per il cristianesimo e per tutte le altre religioni). Di più. La Rand sarebbe stata, per Ryan, “la ragione per cui mi sono dedicato alla politica”.

La passione di Ryan per l’eroina del capitalismo più radicale è stata in questi anni condivisa da gran parte di teorici, militanti, politici repubblicani e conservatori. Una rapida ricerca su Google mostra che non c’è quasi personaggio pubblico che negli ultimi trent’anni si sia proclamato conservatore, negli Stati Uniti, che non abbia espresso tutta la sua passione e devozione per la Rand (ho trovato una sola eccezione, il cattolicissimo William F. Buckley, fondatore della “National Review”, che ne criticava invece la “filosofia essiccata”).

Se uno va però a rileggersi solo alcune pagine della Rand, e le accosta alle politiche e idee perseguite dal partito repubblicano e dai movimenti conservatori USA in questi anni, la sensazione è di radicale alterità, non di vicinanza. La quasi totalità dei politici repubblicani che in questi anni hanno esaltato la Rand (forse, con la sola eccezione di Ron Paul) lo hanno fatto mutuando gli aspetti più esteriori del suo pensiero, e non l’essenza più profonda e rivoluzionaria.

La Rand, un’ebrea che viveva in un Paese a maggioranza cristiana e una rifugiata da un regime totalitario come l’Unione Sovietica, è stata tutta la vita un’infaticabile sostenitrice della libertà economica e personale. La sua apologia del capitalismo e del libero mercato, ben oltre i limiti del darwinismo sociale, non aveva niente a che fare con la vulgata ora imperante presso think-tanks come il Club for Growth o gli Americans for Prosperity (i gruppi a sostegno, finanziario e intellettuale, dei vari Romney e Ryan). La Rand non credeva infatti che il capitalismo fosse il sistema che pragmaticamente funziona meglio, che contribuisce al benessere della maggior parte degli individui. La Rand credeva al valore morale del capitalismo, esaltava la forza etica e fattrice dell’egoismo, disprezzava ogni compromissione tra libero mercato e ideologia cristiana, che definiva “cose da kindergarten”.

Il suo furore libertario in economia si accopagnava a un identico furore libertario sulle questioni individuali e personali. La Rand difendeva il diritto all’aborto, era lapidaria contro l’intromissione dello Stato in camera da letto (basta rileggere, o risentire nelle interviste televisive, quanto diceva contro i tentativi di criminalizzare l’omosessualità), disprezzava l’accoppiata governo/religione propugnata da Ronald Reagan (un presidente, secondo le sue parole, che vuole riportare “l’America al Medioevo”), si batté contro l’uso della forza in politica, contro la guerra in Vietnam e la politica di potenza americana nel mondo.

L’individualismo libertario della profuga atea Ayn Rand ha insomma pochissimo a che fare con la versione riveduta e corretta che i suoi epigoni contemporanei hanno diffuso. Il suo pensiero c’entra poco o nulla con il conservatorismo rapace e bigotto di questi anni, con il misto di pulsione al guadagno e moralismo religioso, con l’accolita di miliardari e leader cristiani che hanno frequentato il GOP degli ultimi trent’anni. L’oggettivismo della Rand può essere soggetto a una radicale critica (lo ha fatto, nel modo tagliente e divertente di sempre, Christopher Hitchens). Ma il suo pensiero così radicalmente razionale e anticristiano, che risultò davvero disturbante nel clima oppressivo dell’America anni Cinquanta, non ha davvero molto a che fare con chi in questi anni ne ha rivendicato l’eredità.

Che il recupero della Rand sia del tutto esteriore lo ha dimostrato del resto lo stesso Paul Ryan. Che di recente, per difendere la sua carriera politica in ascesa e preoccupato dell’eccessiva radicalità anti-cristiana della Rand, è tornato sui suoi passi. “Non datemi Ayn Rand. Datemi Tommaso d’Aquino!”, ha proclamato Ryan in un’intervista alla “National Review”, spiegando che la sua idea di cancellazione del Medicare è in realtà fondata sul principio di sussidiarietà del filosofo cristiano. Quando insomma la politica chiama (politica non nel senso della Rand, quella che deve difendere l’individuo dalla forza e prevaricazione di ogni potere), Ryan e compagni rispondono. E l’individualismo razionalista si trasforma in aristotelismo.

Miserie del conservatorismo attuale, verrebbe da dire. E forse una possibile spiegazione del perché questo conservatorismo non convince, e non vince più, in America.

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