Le cinéma autrementThe Imposter

Da quando è uscito nelle sale inglesi lo scorso 24 agosto, The Imposter ha mandato in brodo di giuggiole buona parte della critica inglese. Ma l'opera prima di Bart Layton lascia l'amaro in bocca. ...

Da quando è uscito nelle sale inglesi lo scorso 24 agosto, The Imposter ha mandato in brodo di giuggiole buona parte della critica inglese. Ma l’opera prima di Bart Layton lascia l’amaro in bocca. Che cosa non ha funzionato?

Dalle pagine del Guardian, Peter Bradshaw conferisce cinque stelle su cinque a The Imposter, definendolo “pura suspense dall’inizio alla fine.” Non solo, il film ha pure conquistato una fetta più che dignitosa di pubblico nonostante sia un documentario – genere notoriamente “minore” quando si parla di incassi per il grande schermo.

Merito delle accorte scelte di programmazione da parte di alcune Arthouses (la versione inglese dei cinema d’essai, ormai a rischio d’estinzione in Italia) e di una pubblicità martellante via web – non bisogna dimenticare che The Imposter è una creatura tutta britannica prodotta da Film4, quindi oggetto di coccole e attenzioni più o meno meritate dalla stampa di settore.

Già, più o meno.

Sono andata a vedere The Imposter due giorni fa al Curzon Soho, a due passi da quella che è forse la piazza con maggior concentrazione di cinema in tutta Europa, Leicester Square. Il franchise Curzon è una curiosa via di mezzo tra cinema propriamente d’essai e grande catena commerciale: un numero ridotto di sale con pochi schermi, programmazione di qualità con qualche concessione ai blockbuster (l’ultimo Batman), ma prezzi da grande multisala.

Prima della visione, mi ero documentata sommariamente leggendo qua e là qualche recensione, fermandomi quasi subito perché in molti consigliavano di vedere il film digiuni dalla trama, per non rovinarsi la sorpresa e i colpi di scena.

The Imposter racconta un fatto di cronaca realmente accaduto: nel 1997, l’impostore seriale di origine francese Frédéric Bourdin ruba l’identità di un ragazzino statunitense scomparso quattro anni prima, riuscendo a ingannare polizia, giudici e persino i familiari della vittima. Prima di approdare al grande schermo, il regista londinese Bart Layton ha lavorato per anni come documentarista per la TV – porta la sua firma una serie di grande successo ideata nel 2006 per National Geographic UK, Banged Up Abroad, sulle esperienze di cittadini inglesi e statunitensi finiti ingiustamente in carcere all’estero.

Il trailer ufficiale del film.

Uscendo dalla sala lotto con un misto di irritazione e delusione. Com’è possibile che non abbia visto nessuna delle cinque stelle di Bradshaw – di cui in molte occasioni ho apprezzato le capacità critiche? Che abbia dovuto lottare con la sonnolenza per un film definito “99 minuti trascorsi col fiato sospeso”?

Gli ingredienti per cucinare un capolavoro c’erano tutti, partendo dal regista di consumata esperienza per finire con una storia incredibile e agghiacciante insieme, potenzialmente adatta non solo per un documentario ma anche per dell’ottima fiction – e il furto di identità non è un’idea nuova nel cinema, si pensi a Il ritorno di Martin Guerre (1986) e Changeling (2008).

Che cosa non ha funzionato?

Credo che la risposta vada cercata nella formula docu-drama. The Imposter è un ibrido tra generi: non è né un documentario né un film drammatico e questa, a mio parere, è una debolezza anziché un punto di forza. Layton tiene il piede in due scarpe: gioca al gatto e al topo con gli spettatori intervistando il vero Bourdin come testimone attendibile, spingendoci all’identificazione con il “cattivo” e a credere alla sua verità per quanto rivoltante possa essere – e lo è, parecchio.

Tuttavia, The Imposter non abbandona la cornice documentaristica, anzi ne mantiene le strutture formali: il racconto di Bourdin è inframmezzato da sequenze interpretate da attori professionisti per certificarne la verosimiglianza; una scelta stilistica ambigua che si ripete per ogni persona coinvolta nella vicenda. Nella crescente confusione diventa difficile, se non impossibile capire le reali motivazioni dei personaggi (e delle persone reali che li hanno ispirati): Bourdin è il carnefice o la vittima? E che razza di famiglia non sarebbe in grado di riconoscere un figlio/fratello/nipote?

Queste domande rimangono senza risposta e, dopo la prima ora, la tensione cala a favore del fastidio: si sente spasmodicamente la mancanza di un Lucarelli denoartri che tiri le fila del discorso, mettendo la parola fine al gioco estenuante di mezze verità, doppie menzogne e tripli salti mortali architettati sullo schermo.

Insomma, il gioco dello specchio è sostenibile nella finzione (Layton cita espliticamente I soliti sospetti (1995) tra i titoli che lo hanno ispirato durante la lavorazione), ma non sempre è adatto per un documentario: senza contare che poi, nel film di Singer, alla fine la verità viene alla luce, mentre le sorti del film di Layton non sembrano arrivare a una conclusione, galleggiando piuttosto a mezz’aria.

Il finale però non ve lo racconto, chissà mai che prima o poi The Imposter esca pure in Italia e, nonostante tutto, abbiate ancora voglia di vederlo.

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