Prevedibilmente, il caso della fuga di documenti riservati della Santa Sede, efficacemente ribattezzata dal portavoce vaticano Federico Lombardi con il neologismo Vatileaks, si avvia alla conclusione. Con alcune luci e molte ombre, ma l’affaire che ha scosso il palazzo apostolico negli ultimi mesi si va via via esaurendo. A inizio della settimana prossima il maggiordomo del papa, Paolo Gabriele, sarà, con ogni probabilità, rinviato a giudizio dal giudice istruttore vaticano Piero Antonio Bonnet. Il processo potrebbe svolgersi in autunno, sempre che – ipotesi tutt’altro che infondata – non intervenga prima la grazia sovranamente concessa dal pontefice. Il papa in persona, ad ogni modo, ha esortato la magistratura vaticana a proseguire “con solerzia” il proprio lavoro, in una recente udienza a Castel Gandolfo. L’assistente di camera di Benedetto XVI rimane l’unico indagato e il solo capo d’accusa che gli viene contestato è il “furto aggravato” delle carte del papa, non, dunque, la loro diffusione. Sebbene sia intuitivamente difficile pensare che egli abbia agito da solo, l’avvocato di Paolo Gabriele, Carlo Fusco, ha puntualizzato a più riprese che il suo assistito non ha avuto complici. La sentenza di rinvio a giudizio, così come la requisitoria conclusiva del “promotore di giustizia” Nicola Picardi, potrebbe tuttavia contenere alcune indicazioni – con tanto di nomi e cognomi – sulla catena di persone che, ricevuti i documenti fotocopiati proditoriamente dal maggiordomo papale, li ha infine recapitati dapprima ad alcuni giornali, e poi a Gianluigi Nuzzi, l’autore del bel bestseller Sua Santità. Si potrebbe trattare di cittadini italiani, sui quali la giustizia vaticana non ha alcuna potestà. A quel punto la ricostruzione dei fatti – complicità, mandanti, movente – scavallerebbe i confini dello Stato pontificio e diventerebbe una vicenda politica e giudiziaria tutta italiana. Il Vaticano si fermerebbe lì.
C’è però un dettaglio che fa riflettere, ed è un dettaglio squisitamente vaticano. Il maggiordomo del papa – lo ha spiegato lo stesso avvocato – ha agito con l’intento, magari delirante ma comunque convinto, di “aiutare” il pontefice. Perché un uomo di fiducia di un sovrano ritiene di poter aiutare il superiore tradendone, appunto, la fiducia? In che modo scartabellare tra i suoi segreti di Stato, fotocopiarne documenti riservati, conservarli poi a casa, e infine passarli all’esterno, puntellerebbe la sua azione di governo? Solo le carte processuali potranno chiarire il significato pieno di questa affermazione. Di certo il pontificato di Ratzinger è stato caratterizzato da scelte forti e, non di rado, impopolari, affermazioni teologiche ed ecclesiologiche controverse, incidenti diplomatici, malfunzionamenti di governo, incomprensioni con i mass media, con esponenti di altre religioni se non addirittura con settori significativi della galassia cattolica. Di certo Benedetto XVI non ha goduto di quella simpatia mediatica e politica – quasi uno scudo di immunità pubblica – di cui ha beneficiato il suo predecessore. Di certo questo pontefice è meno consensuale, meno politico, meno pop di Karol Wojtyla. E di certo nel suo entourage si respira, e non da oggi, un sofferto sentimento di accerchiamento, quasi la sensazione che contro il papa tedesco si sia scatenato un attacco concentrico, un malintenzionato desiderio di metterlo in difficoltà anche a dispetto dei fatti. Può essere bastato questo umore ambientale, sia pur travisato, a convincere un semplice maggiordomo, avvezzo a chiacchiere e confidenze con figure esterne all’appartamento pontificio, a far filtrare oltre le mura leonine controversie e polemiche interne alla curia romana?
Forse sì, forse no, ma comunque non sarà la conclusione della vicenda processuale di Paolo Gabriele a mettere la parola fine ai problemi sottostanti. Innanzitutto perché la fuga di notizie ha fatto emergere una crisi di governance della Curia romana che ha il suo epicentro nel cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone. Il cardinale arcivescovo di Parigi André Vingt-Trois lo ha detto apertamente, molti altri, nei sacri palazzi, lo sussurrano anonimamente, ma quasi tutti puntano il dito contro uno stile di governo sordo alle istanze sottoposte o avverse. Per cui – è la spiegazione dei curiali di lungo corso – se il segretario di Stato non ascolta, o si prova a farsi intendere direttamente dal Papa, con lettere contenute in buste chiuse intitolate “questione di coscienza”, oppure si promuove, o quanto meno si avalla, che certe controversie finiscano sui giornali. In secondo luogo perché, appunto, papa Ratzinger ha preso decisioni controverse – sulla liturgia come sulla pedofilia, sui lefebvriani come sulla trasparenza finanziaria – che qualcuno ha pensato di contestare ricorrendo alla stampa amica. Infine, perché più di uno desidera iniziare a tematizzare la successione all’ottantacinquenne Benedetto XVI, ponendo magari le basi per l’idea che il prossimo dovrà essere un pontefice forte, governativo, garante di equilibri ultimamente incrinati. E quale migliore idea che mostrare al mondo, tramite mass media, che l’attuale è un papato incerto? Con quella che lo storico del cristianesimo Alberto Melloni per primo ha definito una “strategia della tensione”. Una strategia che, facilmente, proseguirà anche quando Vatileaks sarà archiviata negli annali vaticani come la storia di un maggiordomo spergiuro. E che potrebbe concretizzarsi, nei prossimi mesi, con la pubblicazione di carte riservate rimaste nei cassetti, o lanciando allarmi, più o meno fondati, sulla salute del papa regnante, o suggerendo le dimissioni del pontefice, abbigliate, magari, come un tributo al ratzingerismo di Joseph Ratzinger.