Al secondo tamponamento subito in 30 giorni ho deciso di informarmi sulle pratiche correnti per togliere il malocchio.
PRIMO INCIDENTE. Fermi al semaforo rosso, tamponati da un signore accompagnato da due discutibili figuri in minigonna e zeppe da 15 centimetri, senza patente (“L’ho lasciata a casa”) e soprattutto senza assicurazione (“Ero in vacanza e non ho potuto pagarla”). Giustificazione: “Pensavo stesse per tornare il verde e intanto sono partito”.
SECONDO INCIDENTE. Tamponati da fermi alle strisce pedonali (che poi, perché ci viene in mente di rallentare per far attraversare i pedoni? Tanto siamo a Roma…), da un motorino-scheggia che ci dà una botta più forte della macchina carica di tre persone. Stavolta il protagonista è minorenne, ma anche qui manca la patente (“L’ho persa, ho la denuncia di smarrimento). L’assicurazione, per fortuna, c’è. Giustificazione: “Ero distratto, non vi ho proprio visto”.
Solo che stavolta devo andare in ambulanza in ospedale.
E mentre i Batman col mantello e Menelao-maiale della Regione Lazio se la spassano mangiando ostriche al ristorante oppure uva sui triclini, io devo girare due Pronto soccorso per trovare un ginecologo di turno. Al primo – dopo la canonica e lunghissima attesa in corridoio tra pazienti spazientiti abbandonati su lettini di fortuna – mi dicono:
“Ah ma lei ha bisogno di un ginecologo. Qui non ce l’abbiamo, deve cambiare ospedale. Che fa va con mezzo proprio? Perché l’ambulanza non so quanto le costa”. E poi: “Oppure se vuole la visito io: non so’ ginecologa, ma so’ brava lo stesso!”.
Al secondo “presidio medico”, come si dice in gergo educato, nemmeno l’ironia. Solo una ginecologa scortese con me e con i suoi colleghi che voleva controllarmi il battito cardiaco fetale con l’apparecchio per rilevare le contrazioni, il quale ovviamente non dava alcun segnale. Quindi sono stata visitata d’urgenza (“urgenza” leggasi “a due ore dal tamponamento”) e poi lasciata nel panico per la mezz’ora più lunga della mia vita, mentre la suddetta dottoressa era assai impegnata a inserire la mia diagnosi nel computer (mica so’ tutti scrittori veloci, che ci vuoi fare). Come se fossi affetta da temporanea invisibilità, non si è curata nemmeno di dirmi: “Signora, va tutto bene”, oppure “C’è questo problema”. Era solo preoccupata di illustrarmi i protocolli internazionali in materia, dicendomi che doveva propormi il ricovero o farmi firmare il foglio di dimissioni. Poi, dopo 10 minuti di mie domande e sue risposte del tipo “La medicina non è una scienza esatta” oppure “Per ragioni medico-legali le devo dire che può ricoverarsi”, con fare scocciato ha lanciato sulla scrivania il referto dell’ecografo, che aveva fotografato il battito fetale. Da cui ho dovuto desumere (da sola, ma sospiro di sollievo) che era tutto a posto.
Con una capatina su Google ho poi scoperto che la dottoressa in questione – che in effetti mi aveva dato l’impressione di essere una di quelle ex femministe che considerano la maternità un oltraggio alla femminilità (è la seconda che mi capita di incontrare, da quando sono incinta) – è in realtà un personaggio noto e controverso di quell’ospedale, protagonista di varie e discusse interviste sul tema legge 194. Una vicenda che non voglio discutere nel merito, visto che non ne ho nemmeno le competenze. Ma, essendo io sia futura mamma che donna a favore del cosiddetto “diritto di scelta”, mi chiedo: il mestiere del ginecologo “tradizionale” è lo stesso di uno che fa del femminismo e della 194 la battaglia della propria vita? Non sono forse due medici diversi, con competenze diverse, che possono aiutare persone con esigenze diverse? E soprattutto, nel mio caso, la cosa potrebbe avere a che fare col fatto che lei non sapesse usare un doppler fetale?
Comunque, tornando al discorso delle “serie” formule apotropaiche, pare che una ricetta siciliana (che già suona bene) per togliere il malocchio sia di mettere un piatto d’olio sulla testa. Direi che non mi rimane che scegliere tra la scodella per la zuppa, che ne contiene un bel po’, o il classico piatto fondo. Penso che andrò col secondo, perché quando hanno inventato il malocchio Ikea ancora non produceva ciotole.
Beh, io vi farò sapere come è andata. Voi intanto recitate con me:
Specchio riflesso per tutta la vita
Specchio riflesso per tutta la vita
Specchio riflesso per tutta la vita