In un suo post di oggi Umberto Cherubini, anch’egli blogger per Linkiesta, parte dai dati relativi alla produzione di ricerca dei docenti universitari italiani in alcuni settori di ricerca per individuare alcuni spunti di razionalizzazione di spesa universitaria. Egli mette in evidenza, in particolare, come i dati (pur ancora di difficile intepretazione) delle “mediane” diano l’impressione che non vi sia alcuna particolare correlazione tra l’accesso ai fondi di ricerca straordinari rilasciati a progetti specifici (in particolare i PRIN, Programmi di ricerca di rilevante interesse nazionale, e quelli del FIRB, Fondo per gli investimenti nella ricerca di base) e la produttività in termini assoluti e di pubblicazioni di punta. La conclusione, sintetica e tagliente, è:
Se questa correlazione tra successo e fondi non ci fosse (e io sono pronto a scommettere che non c’è), l’indicazione per la spending review dell’università potrebbe essere: taglio dei fondi di ricerca. Questo è il suggerimento che emerge dalla lettura delle mediane. Vengano tagliati i fondi per la ricerca ai professori. E questi fondi vengano invece in parte dirottati ai ricercatori giovani, con progetti valutati da centri di ricerca internazionale. E in parte vengano utilizzati per la stabilizzazione del personale amministrativo precario e per migliorare i servizi agli studenti, di cui abbiamo un bisogno disperato.
Qualunque possa essere, nel suo insieme, l’attendibilità delle relazioni svolte per la calibrazione delle mediane (e l’inserimento di dati su base volontaria non promette nulla di buono per esplicita ammissione dell’Agenzia preposta all’operazione, come mi è già capitato di dire), il discorso di Cherubini merita di essere ripreso su basi più solide: del resto, l'”anagrafe” completa della ricerca italiana è già in gran parte in avanzata fase di sviluppo (o almeno è così per quanto riguarda le sedi di maggiore rilevanza), e per ovvie ragioni di rendicontazione i prodotti di studio nati da finanziamenti particolari (così come la coerenza interna delle realizzazioni dei vari programmi) sono facilmente identificabili. Un raffronto come quello proposto da Cherubini potrebbe quindi essere fattibile secondo dati solidi e sicuramente significativo. E arrivo a dire che secondo me lo scenario che propone l’autore non si allontanerebbe troppo dalla descrizione della realtà che emergerebbe da rilevazioni più accurate (che peraltro egli stesso, mi par di capire, propone al fine di agire nell’ottica di una spending review cogente). Questo, naturalmente, soprattutto per i settori di cierca non basate su attività di laboratorio, visto che queste ultime hanno una organizzazione più complessa e richiedono costi di installazione maggiori. Ma si tratterebbe comunque di un’area di pertinenza piuttosto ampia nello sviluppo del sapere, non strettamente limitata alle scienze umane e sociali.
Dico questo perché nel corso degli anni ho iniziato a maturare sui nostri sistemi di distribuzione dei fondi di ricerca alcune idee che, magari attraverso strade diverse e legate meno alla quantità che all’utilizzo reale delle somme ottenute per il funzionamento delle nostre istituzioni accademiche, arrivano alla conclusione a cui è giunto Cherubini. Intervenire in tal senso, naturalmente secondo criteri ben determinati e mirati, potrebbe garantire una effettiva razionalizzazione nell’utilizzo delle risorse (comunque troppo scarse e bisognose di un investimento decisamente degno di un paese sviluppato, sempre che vogliamo continuare ad esserlo) che impieghiamo per il sostentamento della nostra università.
In primo luogo, i finanziamenti di ricerca ottenuti attraverso PRIN, FIRB e programmi affini, o attraverso convenzioni con fondazioni private o parastatali, insomma tutti quelli che si aggiungono per così dire al bilancio ordinario degli atenei, sono utilizzati quasi completamente per il pagamento di personale di ricerca. Si trattava di ricercatori che, poi, erano spesso utilizzati a titolo gratuito per attività didattiche, nell’ambito di una deregolamentazione che sul piano formale tratta gran parte degli studiosi da cui dipendeva il buon esito dei progetti esattamente come matite, computer portatili e scanner; sul piano personale, finisce per indebolire decisamente i curricula dei nostri studiosi nei primi passi di carriera sul piano internazionale, visto che gran parte delle attività di insegnamento e di ricerca autonome non sono riconosciute e non rappresentano esperienza “spendibile” nella competizione con realtà universitarie in cui l’esperienza d’insegnamento viene attentamente valutata e quantificata. Dapprima ciò avveniva attraverso varie forme contrattuali tutte imperfette; oggi, la riduzione di queste tipologie e la loro limitazione nel tempo si è tradotta nell’espulsione di un numero crescente di ricercatori ormai esperti dalle università. Orientare le risorse al consolidamento delle prospettive di carriera di questa classe di professionisti, sia nella quantità che attraverso un riconoscimento diretto del loro apporto e della qualità del loro lavoro in autonomia, è una questione ineludibile, eppure costantemente elusa da tutti gli interventi legislativi in materia.
Questa stortura, del resto, è intimamente legata alla natura dei programmi di finanziamento. Ai PRIN, per dire, accedono “reti” di strutturati di diverse sedi, secondo un sistema che ha chiaramente mostrato la sua inefficienza nel creare piani di lavoro coerenti e coesi ma che serve per distribuire meglio i fondi tra sedi grandi e piccole, più o meno efficienti, e non si tiene in alcun conto che in ogni sede sia presente un gruppo di lavoro a composizione mista, tanto che per gli assegni di ricerca occorre prevedere concorsi a cui dovranno partecipare sostanzialmente gli estensori di parte dei progetto; ai FIRB possono accedere in quota minoritaria studiosi precari, ma è previsto un complicato conteggio per la partecipazione di personale strutturato che, per stessa ammissione della commissione giudicatrice in più occasioni, è puramente fittizia. Una ristrutturazione di questo sistema, in cui nei migliori dei casi gruppi di ricerca si impegnano e partecipano alle selezioni senza poterlo dire, è in ogni caso un passo obbligato per quella riduzione della distanza di trattamento tra personale precario e strutturato a cui avevo fatto cenno in precedenza.
Tutto questo, naturalmente, senza prendere in considerazione gli effetti destabilizzanti sul sistema dei tempi di approvazione dei finanziamenti che sfiorano il ridicolo, delle pastoie burocratiche per il loro utilizzo il cui superamento richiede l’impegno ben al di là dei loro doveri di impiegati amministrativi a cui deve sempre andare tutta la nostra riconoscenza, e soprattutto senza menzionare la gestione senza mezzi termini dilettantesca che noi, partecipanti fino alle ultime battute del primo FIRB “Futuro in ricerca”, siamo stati costretti a subire tra 2009 e 2010. Magari su tutto questo potrò tornare un’altra volta.