Può sembrare un dettaglio di cronaca minima, la nota a pie’ di lista di una comunicazione di servizio, ma la selezione dei giornalisti che da oggi seguono il processo per furto aggravato di documenti riservati della Santa Sede a carico del maggiordomo del papa, Paolo Gabriele, getta una luce sull’atteggiamento del Vaticano nei confronti dell’opinione pubblica – e sulla battaglia tra trasparenza e segretezza che si combatte all’interno delle mura leonine nell’era Ratzinger.
La decisione è stata laboriosa e controversa. La sala del tribunale vaticano, alle spalle della basilica di San Pietro, è un ambiente piccolo ed era perciò necessario individuare un pool di dieci cronisti che seguano il procedimento e poi riferiscano tutto ai colleghi rimasti fuori. Una iniziale proposta della Santa Sede è stata dapprima trasmessa ai giornalisti con la mediazione dell’Aigav (Associazione internazionale dei giornalisti accreditati in Vaticano), poi contestata dagli stessi giornalisti, modificata, rinviata ai piani alti della segreteria di Stato, modificata nuovamente, infine sottoposta ad una sorta di referendum interno. Alla fine sei giornalisti seguiranno tutto il processo: i colleghi di Osservatore romano, Radio vaticana, Associated press, Reuters, France presse, Ansa. Altri quattro vengono estratti a sorte per ogni udienza da altrettanti gruppi: giornali, televisioni e radio italiani (oggi tocca a Marco Ansaldo di Repubblica), altre agenzie italiane e straniere (Juan Lara de Marmol di Efe), giornali, televisioni e radio non italiani (Andrea Bachstein della Sueddeutsche Zeitung) e testate cattoliche (Angela Ambrogetti di Korazym). In principio, accedere al dibattimento non è un privilegio ma un servizio a nome di tutta la stampa interessata al processo. I malumori, però, non sono mancati. L’atto di accusa più duro è stato formulato sul Blog degli amici di papa Ratzinger da Salvatore Izzo, vaticanista di lungo corso, collega appassionato a amico stimato con il quale non di rado – come in questo caso – sono in perfetto disaccordo: “Vengono ‘premiate’ le stesse testate che per esempio hanno di fatto danneggiato il papa a Ratisbona, in Africa sull’Aids e (in questo caso con l’eccezione dell’Ansa) sulla pedofilia (ricordate la lettera del cardinale Ratzinger tradotta male dall’Ap?)”. Poi l’affondo: “Che il Vaticano accetti questa impostazione lo trovo assolutamente sconcertante: è farsi male da soli. Come quando all’inizio di questa penosa vicenda di Vatileaks non hanno detto che Paolo Gabriele rubava assegni e pepite, favorendo così la manovra interessata di chi voleva presentarlo come una sorta di eroe della trasparenza (sic!), l’ennesima operazione ‘macchina del fango’ contro la Chiesa, che è il vero scopo perseguito da tanti media e dai massoni che li controllano”. Ohibò, la massoneria? La vicenda del maggiordomo papale strumento di un complotto demo-pluto-giudaico-massonico per infangare la Chiesa?
Non credo proprio. Penso che nelle grandi agenzie internazionali ci siano ottimi colleghi che nel corso degli anni hanno raccontato successi e insuccessi del pontificato. Possono esservi stati errori, certo, ma non credo né alla mancanza di professionalità, né alla malafede, né, tanto meno, al complotto. E’ tuttavia interessante un aspetto messo in luce da Salvatore Izzo. Perché la Santa Sede non ha lasciato che i giornalisti accreditati eleggessero per consultazione i propri rappresentanti? Perché, oltre alle due testate della casa (Osservatore romano e Radio vaticana) è stato lo stesso palazzo apostolico – e in particolare i due responsabili della comunicazione, il portavoce Federico Lombardi e il consulente per la comunicazione Greg Burke – a indicare, per i posti fissi nel pool, alcune agenzie stampa internazionali non sempre tenere con il Vaticano? Voglio credere che la risposta sia semplice: per trasparenza. La stessa trasparenza indicata in questi anni da Joseph Ratzinger come principio da seguire in tutt’altro ambito: lo scandalo della pedofilia (il papa ha ricordato che i nemici della Chiesa non sono esterni ma sono i propri peccatori) e l’affaire Ior (la Santa Sede ha aperto le proprie porte ai funzionari di Moneyval, organismo del Consiglio d’Europa che sta monitorando l’adeguamento del Vaticano agli standard internazionali per contrastare il riciclaggio di denaro sporco). Anni fa tutto questo non sarebbe stato neppure immaginabile. Nel 1998, per fare solo un esempio, il caso Estermann (l’omicidio-suicidio del comandante della Guardia svizzera Alois Estermann, di sua moglie Gladys Meza Romero e della guardia pontificia Cedric Tornay) si concluse con una corposa quanto fumosa perizia data in pasto ai cronisti, che apriva più interrogativi di quanti ne chiudeva – e tutto finì così. Per non parlare della torbida vicenda di monsignor Marcinkus, della maxi-tangente Eni passata dallo Ior, della scomparsa di Emanuela Orlandi…
La trasparenza dell’era Ratzinger, però, non è perfetta. E il processo al maggiordomo del papa lo sta dimostrando. Nell’aula del tribunale non sono ammessi registratori audio, telecamere (salvo per l’apertura del procedimento) e fotografi. Il dibattimento non verrà trasmesso – come era stato chiesto dai cronisti accreditati – con un collegamento audio in sala stampa. Il pubblico ammesso ad assistere viene selezionato dal presidente del tribunale vaticano. Più fondamentalmente, rimangono coperti da omissis i testimoni dell’istruttoria (la loro identità sarebbe rivelata solo se venissero chiamati a testimoniare nuovamente in dibattimento, ma la decisione, di nuovo, spetta, in ultima istanza, al presidente del tribunale). E il processo riguarda solo ed esclusivamente il furto delle carte riservate della Santa Sede. E’ stata stralciata la questione di come quelle carte siano finite nel libro di Gianluigi Nuzzi Sua Santità e sulle pagine del Fatto quotidiano. Paolo Gabriele ha parlato – in un’intervista a volto coperto allo stesso Nuzzi – di “una ventina” di complici, ma di loro, in questo processo, non si parla. E anche dell’arresto dell’unico complice imputato – il tecnico informatico della segreteria di Stato Claudio Sciarpelletti – l’opinione pubblica è stata informata solo al momento del rinvio a giudizio. Le indagini, spiegano in Vaticano, continuano. Tra aspirazioni di trasparenza e impulsi alla segretezza.