Come ben sanno gli addetti ai lavori, nel nuovo sistema di reclutamento universitario l’idoneità all’ammissione ai ruoli nei settori dove la circolazione internazionale dei prodotti di ricerca è meno strutturata può avvenire a seguito della pubblicazione di un certo numero di interventi su testate che l’ANVUR, agenzia ministeriale per la valutazione della ricerca, ritiene scientificamente valide. La preparazione degli elenchi che per ogni area disciplinare individuavano le riviste effettivamente scientifiche era quindi molto attesa, e tra i critici di questo nuovo sistema di selezione si erano diffuse critiche metodologicamente raffinate, come ad esempio il timore che la creazioni di diverse “patenti di scientificità” per le diverse aree disciplinari scoraggiasse le più preziose esperienze di incontro interdisciplinare. Ma anche i più pessimisti saranno rimasti disarmati dai risultati quando gli elenchi sono stati pubblicati il 20 settembre.
- Per le discipline letterarie e filologiche, sono sedi valide Insegnare Religione, La Rivista del Clero Italiano, Evangelizzare. Mensile per operatori di catechesi, Diario e Airone.
- Per le discipline storiche, può invece andar bene Leadership Medica.
- Per le discpline economiche non basta Class, ma va bene anche Suinicoltura.
- Per le discipline ingegneristiche, i magazines commerciali Yacht e Nautica sono sedi di pubblicazione ammissibili.
- Nonostante si sia anticipata l’esclusione dei quotidiani, sono presenti Il Mattino di Padova e Il Sole 24 Ore.
La redazione di ROARS ha dedicato alla questione un articolo quasi derisorio, ma io mi soffermerei su alcuni temi che non mi fanno ridere. In primo luogo, posso partire da un cenno fatto alla fine del commento che ho appena menzionato:
Da ultimo, non va dimenticato che queste liste così allargate rendono abilitabili anche pubblicisti che hanno pubblicato poco o nulla su riviste scientifiche di qualità. Basta essere un collaboratore fisso di una di queste riviste e – voilà – la seconda mediana (quella del numero di articoli scientifici e di capitoli di libro) è superata di slancio. Forse è il momento di gettare un occhio ai regolamenti di ateneo che governeranno i successivi concorsi locali, decisivi per assumere gli abilitati. Queste liste di riviste sono un regalo a chi è scientificamente debole ma politicamente forte a livello locale.
In effetti uno dei problemi più evidenti dell’università italiana nel corso della sua storia è stata la scarsa professionalità garantita da alcuni esponenti dei livelli di base dei ruoli di insegnamento e di ricerca: tra gli storici “assistenti” di un tempo come tra i ricercatori assunti negli anni Ottanta, figuravano molti che si sono appoggiati agli stipendi accordati dagli atenei per svolgere altre attività magari meritorie, come la libera professione in contesti poco remunerativi o l’attività politica a tempo pieno; altri, invece, hanno solo rappresentato un elemento delle opache e complesse relazioni strette tra alcune sedi periferiche e scadenti con il tessuto sociale delle realtà che le ospitavano, le mantenevano attraverso le tasse universitarie e varie modalità di finanziamento accordate dagli enti locali, e si rivolgevano ad esse per ottenere titoli di studio. La situazione si è fatta ancor più complessa col dilagare delle università telematiche, realtà comune a tutto il mondo sviluppato ma che in Italia ha fatto un tratto distintivo degli stretti rapporti coi vertici politici, economici e istituzionali (spesso sfociate in improbabili posizioni d’insegnamento), volte sì ad assicurarsi risorse per incrementare le proprie strutture in fase di impianto, ma soprattutto ad assicurare la sopravvivenza e il buon valore contrattuale della merce che vendono, il titolo di studio slegato dalla preparazione. Ora maglie troppo larghe nelle idoneità possono essere rischiose per un ulteriore svilimento delle professionalità scientifiche in settori da questo punto di vista già a rischio, visto che (per ora) le chiamate degli idonei da parte delle sedi saranno regolate sulla base dei singoli statuti e regolamenti locali.
Qualche parola si deve poi spendere sul metodo di composizione delle liste: in pratica, in diverse aree disciplinari si sono raccolte le testate su cui docenti hanno indicato di aver pubblicato riportando i loro titoli sulla banca dati di riferimento per queste operazioni, senza ulteriori scremature. Quindi, sembra far sapere per vie traverse l’ANVUR, la colpa sarebbe dei docenti, che hanno pubblicato su sedi scientificamente indegne e se ne gloriano pure, registrando i loro articoli pubblicistici come titoli professionali. Ma questa posizione mi lascia perplesso per varie ragioni.
Tanto per cominciare, non solo uno studioso ha il diritto di fare attività pubblicistica e di rivolgersi a un pubblico di non specialisti con prodotti di comunicazione adeguati, ma un simile approccio è anche auspicabile. I progetti di ricerca europei richiedono ormai normalmente, tra gli elementi salienti nel cv del proponente, l’esperienza nelle outreach activities, le attività di coinvolgimento dell’opinione pubblica su temi culturalmente rilevanti, di presentazione scientifica a non specialisti, di ampliamento del pubblico di riferimento che si possono mettere a punto a lato del progetto di ricerca principale. E per questo tipo di attività sono titoli professionali preziosi gli articoli su riviste ad ampia diffusione, che dimostrano una capacità di divulgazione ormai importante e non sempre così diffusa tra gli studiosi del nostro paese. Che quindi i ricercatori italiani considerino significative le loro attività pubblicistiche non mi pare assolutamente strano; starebbe caso mai agli enti preposti distinguere tra ciò che può essere definito un prodotto che illustri le capacità di analisi e la padronanza dei metodi d’indagine specialistica di un aspirante ricercatore, e ciò che serve ad altro.
Vero è anche che definire cosa è una rivista scientifica e cosa non lo è non è semplice. Tuttavia, in tutti i settori si sono consolidate forme di circolazione del sapere professionale piuttosto ben identificabili, e del resto andando a scartabellare nella produzione documentaria dell’ANVUR, si trova una definizione di rivista scientifica tutto sommato accettabile:
La descrizione della rivista o la politica editoriale prevedono esplicitamente il riferimento alla natura scientifica e alla pubblicazione di risultati originali / esiste un comitato scientifico della rivista / il comitato editoriale ha una composizione in cui la componente accademica è rilevante e/o il direttore della rivista ha affiliazione accademica.
La presenza di un comitato scientifico riconosciuto e la selezione dei prodotti da pubblicare sulla base della fondatezza metodologica di fondo sono gli elementi su cui sostanzialmente puntare, anche perché, pur nelle loro diverse possibili declinazioni, la loro effettiva presenza può essere facilmente rilevata. Questi criteri di massima però non sono stati considerati. Riallacciandomi alle considerazioni che ho già fatto in precedenza, secondo me questa “timidezza” dell’ANVUR nell’intervenire per modificare e “ripulire” gli elenchi deriva dalla sua natura di organismo ministeriale, i cui componenti non si sentono del tutto legittimati a entrare nel merito delle valutazioni scientifiche ben sapendo che ogni scelta si presterebbe a polemiche che solo una piena condivisione del ruolo nella comunità scientifica renderebbe possibile sostenere, e che nei fatti si riduce a istituzione di tipo amministrativo. Questo, naturalmente, a prescindere dal valore e dalla buona volontà dei membri dell’agenzia, che almeno nel mio settore è fuori di dubbio (sebbene alcuni di loro siano stati fatti oggetto di attacchi personali infondati, inopportuni e inqualificabili). Il problema di funzionamento è strutturale, e se gli organismi preposti mostreranno la stessa tendenza a non “sporcarsi le mani” con selezioni più incisive nei passaggi successivi per l’assegnazione delle idoneità le cose potranno solo peggiorare.