Premessa: per quanto concerne la libertà di stampa nel 2012, Freedom House ha (ri)appioppato all’Italia lo status di «Paese parzialmente libero», collocandola al 24esimo sui 25 Stati dell’Europa occidentale: dietro di noi c’è solo la Turchia (70esimo posto su 197 totali, posizione vicina alla 61esima su 179 assegnatale da Reporters sans frontières). L’argomento risulta quindi piuttosto delicato e può essere affrontato solo coi piedi di piombo. Ma la cosa non ci interessa in alcun modo, perché la condanna definitiva del direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti non ha nulla a che vedere con la libertà di stampa. Anzi.
Offriamo qui un breve riassunto delle puntate precedenti, prendendo testualmente la versione data da Il Giornale lo scorso venerdì nell’articolo di Luca Fazzo che ha lanciato l’allarme sul possibile arresto del suo direttore, per non essere accusati di faziosità (un’altra campana l’ha offerta solo in questa tarda serata il Corriere): «Tutto comincia nel febbraio 2007, quando sul quotidiano torinese La Stampa viene pubblicato un articolo che nel giro di poche ore rinfocola le polemiche mai sopite intorno alla legge sull’aborto.
È la storia di una ragazzina di 13 anni, rimasta incinta e autorizzata ad abortire dal tribunale di Torino: ma, dopo la interruzione forzata della gravidanza, preda di scompensi emotivi talmente pesanti da portarla al ricovero in un reparto di psichiatria [sic: la sintassi, questa sconosciuta, nda]. Parte immediata la polemica, da una parte chi difende la scelta dei giudici e degli assistenti sociali, dall’altra la Chiesa e il fronte antiaborto si indignano: chi ha permesso a una bambina di abortire senza esplorare altre strade?
La notizia rimbalza sulle agenzie di stampa, e l’indomani su diversi giornali. Compreso Libero, allora diretto da Sallusti. Alla vicenda, il quotidiano dedica un articolo firmato dal cronista Andrea Monticone, che racconta senza fronzoli la vicenda, e un corsivo pesantemente critico firmato con lo pseudonimo di Dreyfus». L’articolo, dopo la difficile reperibilità dei giorni scorsi, è finalmente leggibile con facilità via internet: ovvia conditio sine qua non per andare avanti è la sua presa visione.
Proseguiamo, sempre con Il Giornale: «Né i genitori della ragazzina né i medici si sentono diffamati dall’articolo di Monticone né dal corsivo di Dreyfus. A inalberarsi è invece un magistrato torinese, Giuseppe Cocilovo, in servizio presso l’ufficio del giudice tutelare, il cui nome non è stato fatto né da La Stampa, né da Libero né dagli altri giornali. Ma Cocilovo si sente chiamato in causa. Prende penna e carta da bollo e deposita una querela contro il cronista e contro l’autore del commento.
Sallusti finisce sotto inchiesta: sia per “omesso controllo”, cioè per avere permesso la pubblicazione dell’articolo di Monticone, sia come supposto autore del commento firmato Dreyfus.
Il 26 gennaio 2009 il tribunale di Milano condanna Monticone e Sallusti rispettivamente a 5mila e 4mila euro di ammenda. Cocilovo e la procura impugnano. E in appello, il 17 giugno 2011, arriva la batosta»: la condanna impone una pena di 14 mesi di reclusione, passando in giudicato oggi con la decisione della Cassazione.
Rimandando agli editoriali di Sallusti di domenica e martedì per il sacrosanto diritto di replica, preme sottolineare un paio di questioni di non poco rilievo.
In primis, Sallusti non è stato condannato per le sue opinioni (come si sente dire in queste ore), ma per non aver controllato ciò che è stato pubblicato dal suo giornale dell’epoca, del quale, da direttore, era responsabile.
Cosa è stato scritto su Libero è disponibile in rete; stabilirne per tabulas l’intento diffamatorio (cosa che Il Giornale si è guardato bene dal fare nel suo riassunto appositamente generico) è facilissimo. Basta prendere il comunicato dell’ufficio stampa della stessa Cassazione, che riportiamo integralmente:
«Emerge, dalle sentenze dei giudici di merito: a) [che] la notizia pubblicata dal quotidiano diretto dal dott. Sallusti era ‘falsa’ (la giovane non era stata affatto costretta ad abortire, risalendo ciò ad una sua autonoma decisione, e l’intervento del giudice si era reso necessario solo perché, presente il consenso della mamma, mancava il consenso del padre della ragazza, la quale non aveva buoni rapporti con il genitore e non aveva inteso comunicare a quest’ultimo la decisione presa); b) [che] la non corrispondenza al vero della notizia (pubblicata da La Stampa il 17 febbraio 2007) era già stata accertata e dichiarata lo stesso giorno 17 febbraio 2007 (il giorno prima della pubblicazione degli articoli incriminati sul quotidiano Libero) da quattro dispacci dell’Agenzia Ansa (in successione sempre più precisa, alle ore 15.30, alle ore 19.56, alle 20.25 e alle 20.50) e da quanto trasmesso dal Tg3 regionale e dal Radiogiornale (tant’è che il 18 febbraio 2007 tutti i principali quotidiani, tranne Libero, ricostruivano la vicenda nei suoi esatti termini); c) [la] non identificabilità dello pseudonimo ‘Dreyfus’ e, quindi, la diretta riferibilità del medesimo al direttore del quotidiano».
Chiudo questo primo punto invitandovi a ricercare in internet questa versione dei fatti: noterete come la tanto democratica rete non le dia alcuno spazio (eccezion fatta per l’articolo di Alessandro Robecchi, l’unico ad oggi pomeriggio che abbia seguito la questione con la giusta professionalità), sommersa com’è dalle ricostruzioni primigenie e dalle prese di posizione degli ultracattolici dell’epoca.
Seconda questione da chiarire: i giudici possono solo applicare la legge; se la legge è sbagliata, va applicata fino a quando rimane in vigore; per cambiarla, ci sono gli appositi organi, previsti dalla Costituzione con l’art 71 («L’iniziativa delle leggi appartiene al Governo, a ciascun membro delle Camere ed agli organi ed enti ai quali sia conferita da legge costituzionale. Il popolo esercita l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli»): i giudici non possono modificare una legge che prevede tra le pene possibili anche la carcerazione (art. 595 c.p.), tant’è che già Marco Travaglio aveva rischiato la prigione per diffamazione a mezzo stampa (la pena carceraria del primo grado divenne pecuniaria nel secondo, finendo in prescrizione).
Al di là della Costituzione e del buon senso, a suggerire tale visione dei fatti è stato Il Giornale stesso col catenaccio del già ricordato articolo di Luca Fazzo («Vogliono arrestare il direttore de Il Giornale: Alessandro Sallusti rischia 14 mesi in cella. La corte d’Appello di Milano lo ha condannato per diffamazione aggravata in tempi record. E per un articolo neppure firmato. Il 26 la Cassazione decide se dovrà andare in carcere. La colpa? Non dei giudici ma dei politici che non hanno mai cambiato una legge antidemocratica»).
Sulla base di questi due dati di fatto, ricordando en passant con Filippo Facci – che non è certo Marco Travaglio – come Sallusti può tranquillamente evitare il carcere (se poi, come ha dichiarato, ci vuole andare, fatti suoi), possiamo trarre rapidamente alcune delle nostre conclusioni.
1- Ai politici indignati viene purtroppo da ricordare solamente quanto siano profumatamente pagati per abrogare, modificare o proporre nuove leggi: il «caso Sallusti» infatti ci fa ricordare – come se ne avessimo bisogno – il fallimento della politica italiana, la prima responsabile delle situazioni odierne. La detenzione per la diffamazione a mezzo stampa vi pare troppo? Modificate la legge e state zitti.
2- Come facilmente prevedibile, la sentenza della Cassazione sta già diventando arma politica, ovviamente da parte dei soliti noti: prendete le dichiarazioni delle Santanchè e dei Cicchitti vari ed eventuali, sempre pronti a inneggiare al bavaglio sulle intercettazioni e ora sconvolti per la libertà di stampa negata dalla magistratura, quella pronta a tornare nel centro di mirino, magari per decisioni forti sul rapporto tra lavoro e salute.
3- Per quanto spesso affiancata all’appena citata libertà di stampa, quella di opinione col «caso Sallusti» c’entra molto poco, checché ne dicano quasi tutti i giornalisti.
La Cassazione ha infatti condannato definitivamente col carcere solo un certo modo di fare giornalismo, quello che si basa sulla perversione dei fatti, piegati a proprio uso e consumo (nello specifico, per attaccare la solita magistratura e per leccare il culo alla Chiesa) in barba alla verità, già disponibile con una semplice verifica delle fonti (i lanci Ansa).
La Cassazione ha oggi condannato col carcere il peggior giornalismo italiota, quello che spesso e volentieri abbiamo subito passivamente, un altro dei responsabili della condizione italiana, che non si interessa ai fatti ma ai favori che – con la disintegrazione della realtà che è in grado di perpetrare con le parole – è in grado di fare al potente di turno.
Vista sotto questa luce, la prigione (peraltro virtuale) vi pare ancora eccessiva? Come ha detto Alessandro Robecchi (lo ribadiamo: uno dei pochi giornalisti che sul caso specifico ha fatto il suo lavoro), «di molte cose abbiamo bisogno, ma non di un martire della libertà con la faccia di Sallusti». Altro che «Siamo tutti Sallusti». Parlate per voi.
ALESSANDRO BAMPA